Non c’è magia in ciò che mi lega agli spazi di Villa Arbusto, se magie non sono un affetto viscerale e una memoria commossa, il senso di un’appartenenza e il desiderio di ritornarvi. La conobbi nel dignitoso abbandono che velò di polvere le maioliche dei suoi luminosi pavimenti o logorò quelle sparse nel parco; la vissi negli anni dei miei studi tra le scansie del magazzino in cui i preziosi reperti di Pithekoussai erano ordinati e custoditi, quando si dava per imminente l’ordinamento del museo;
la visitai ammirato, restituita alla cultura con encomiabile sforzo, acropoli di una storia ritrovata, dirimpetto alla più antica acropoli della Grecia d’Occidente. E vi sono tornato più volte.
Mi dicono in molti, però, che il Museo Archeologico di Pithekoussai non funziona. Nel senso che – rispetto al suo straordinario contenuto – sono pochi i visitatori rispetto alla massa dei turisti affezionati od occasionali che affollano Ischia per almeno otto mesi l’anno, e meno ancora vi giungono perché consapevoli del suo valore. Eppure il contenitore è meraviglioso, il parco godibile e ben curato, non di rado scenario di eventi e spettacoli.
Il problema è lo stesso di centinaia di musei italiani. Fate pure la tara della collettiva sbronza tecnologica, tecnicista e parascientifica per sentito dire che annebbia le menti della ggente del XXI secolo, andate al netto della crisi della cultura classica e umanistica (indotta e pilotata da manovratori ben riconoscibili); chiedete a uno studente delle superiori, a un impiegato diplomato, a molti laureati e professionisti d’area scientifica, tecnologica ed economica che cosa suscita in loro la parola museo: la maggior parte vi comunicheranno sensazioni di pesantezza, di seriosità, di noia, perfino di vecchiume; se visitano dei musei, è per compiere un rito, per taggare quel luogo, per verificare a occhio nudo ciò che la virtualità, l’informazione e la fama hanno consacrato idolo, per scattare un selfie dove è consentito, lasciando un segno del proprio nulla mortale accanto all’immortalità fatta feticcio. Sono gli addetti ai lavori, i cultori, i connoisseurs entusiasti – sono quelli come me, non altri – che riescono ancora a goderne, ma con tutto il disagio che ispira quella malsana concezione del museo come teca mortuaria, reliquiario, santuario, conservatoria di un registro dell’immobilità, vetrina di vetrine e piedistalli, di pallose didascalie fatte di numerini illeggibili, di termini tecnici, di sigle di secoli, di puntigliosi riferimenti a una dimensione locale che non può che sfuggire a chi locale non è, nei pannelli che vorrebbero e dovrebbero introdurre a un mondo e a un tempo, ma sono spesso compitati con uno spirito da impiegati del sapere, anziché da intellettuali e maestri di comunicazione e divulgazione scientifica.
Nei musei italiani, con rare eccezioni, si entra per tacere. Per leggere pannelli e didascalie che, a fine corsa, risultano di peso pari a una plaquette di cento pagine, ma infinitamente peggio scritti. Per isolarsi, semmai, come coatti-aspiranti-rapper con le immancabili audioguide. Raramente ci trovereste studenti universitari, giovani delle accademie di belle arti o dei licei artistici intenti a riflettere, disegnare dal vero, fotografare; né gli abitanti del posto che approfittano di un pomeriggio libero, di una soirée con conferenza, di una pausa-pranzo per godersi una sala, immergersi nella bellezza – che tuttavia resiste! – e magari conversare amabilmente alla caffetteria. Perché il museo, e basta mettere il naso a nord degli italici confini, è un luogo da vivere, se accoglie e invita.
Il Museo Archeologico di Pithekoussai avrebbe tutto per diventare un modello da imitare e un’attrazione culturale di primaria importanza per Ischia: reperti di eccezionale interesse, frutto di scavi condotti scientificamente e studiati per decenni; una splendida cornice architettonica e ambientale; spazi tali da poter ospitare mostre temporanee di archeologia mediterranea, magari attraverso partenariati con altri musei italiani e soprattutto greci, e per questo serve uno staff di professionisti strutturati e free-lance che si occupino di simili operazioni in sinergia con università e soprintendenza.
Sono apprezzabili lo sviluppo rigorosamente cronologico e topografico dell’allestimento attuale, la fruibilità degli spazi e la collocazione degli oggetti, ma molto dovrebbe essere riconsiderato. Parliamo della Coppa di Nestore: un tesoro che il mondo ci invidia, il primo testo poetico occidentale, antecedente la redazione dei poemi omerici. Dovrebbe avere una sala intera a disposizione. Ogni 10’ sulle pareti dovrebbero scorrere le sue immagini amplificate, una voce narrante dovrebbe raccontarne la storia, una recitante intersecarsi ad essa e far risuonare in greco antico, in italiano, in inglese e in tedesco i due esametri, saturando l’ambiente; e una rievocazione del suo senso, dal riferimento omerico alla vera coppa di Nestore all’immagine della coppa aurea micenea che porta lo stesso nome per volontà e fantasia di Heinrich Schliemann darebbe il via a una sequenza di scene aventi per tema il vino, il simposio, il rito funebre con attori. Far vivere lo spettatore nell’antica Pithekoussai per dieci minuti, e poi condurlo tra le testimonianze della vita della colonia euboica. E in questa sala, ogni mese, potrebbero trovare spazio delle Homeric Lectures accompagnate da letture di brani poetici a tema, con animatori-attori, oppure di musiche della Grecia antica; e in margine all’evento di ogni sera, una degustazione di vini isolani farebbe da incentivo a riscoprire il museo come parte attiva nel sistema-turismo.
I materiali degli edifici di età arcaica e posteriore rinvenuti sull’acropoli (soprattutto nello Scarico Gosetti) non possono trovarsi mummificati in vetrine, ma devono essere ricollocati a un’altezza corretta, che ne suggerisca il punto di vista, con ricostruzioni parziali degli alzati per via ipotetica, utilizzando materiali anodini e tecnologici (plexiglas, vetro, compensati etc.) o legno naturale, e gli spazi devono essere “abitati” da figure che, partendo dai materiali esposti nelle vetrine e dai dati di scavo, presentino l’aspetto dei Pitecusani, il loro abbigliamento, gli ornamenti; altrove devono trovare spazio, sulla base dei dati di scavo, le ricostruzioni in scala reale del cosiddetto “quartiere industriale” di Mazzola, con un richiamo alle produzioni metallurgiche e orafe, e del sito rurale di Punta Chiarito. In ogni sala – ispirandosi al modello dei musei britannici di storia – dovrebbero mescolarsi comunicazione sonora, visuale, documenti e materiali con una sapiente regia che coinvolga lo spettatore sia sul piano intellettuale che su quello emozionale: i temi del mare, del commercio, del comune mercato mediterraneo si possono raccontare attraverso gli oggetti, spettacolarizzando quelli famosi come il Cratere del Naufragio. La tragica vicenda dipinta in stile tardogeometrico sulle sue pareti potrebbe essere presentata con effetti sons et lumières facendo piombare la saletta nell’oscurità e facendo scorrere come lampi sulle pareti frammenti della scena dipinta, sovrapponendovi sonorità d’effetto che facciano immergere il visitatore nel dramma.
E che dire delle decine di anfore commerciali di cui abbiamo individuato aspetti metrologici e archeometrici fondamentali? Quella – famosissima – dalla tomba 575, di ben modesto aspetto ma la cui ricostruzione della capacità originaria ha aperto scenari impensabili sulla storia della matematica prepitagorica e sull’organizzazione del sistema di scambi commerciali e delle misure di capacità in età geometrica e arcaica, potrebbe occupare uno spazio a sé; mentre un pannello che faccia da sfondo alle altre anfore dovrebbe tener conto del fatto che per la maggior parte di quelle greche, greco-orientali, fenicie e fenicio-occidentali sono state individuate le aree di provenienza, permettendo di visualizzare la rete di scambi fra VIII e VI secolo a.C. Del pari meriterebbero una valorizzazione i vasi attici figurati rinvenuti in tombe del VI e V secolo a.C., dei quali sono stati identificati gli esecutori: su uno di essi, in particolare, compare un mito che potrebbe essere felicemente rianimato attraverso fonti, comunicazione sonora, ricerca di confronti nell’arte, e alludo al cratere del Pittore di Borea (460-450 a.C.).
Un ambiente nel quale si possa poi preparare la visita e la comprensione della suggestiva ma ancora poco scientificamente illustrata cripta archeologica di S. Restituta farebbe da tramite per conoscere gli aspetti dell’isola in età ellenistica e romana, giocando anche su diorami in scala o su affidabili ricostruzioni digitalizzate dei bassi fondali di Cartaromana o dei quartieri ceramici prospicienti la Spiaggia dei Pescatori a Lacco Ameno.
Sulle pareti di ogni sala, piuttosto di pannelli troppo doviziosi – per chi vuole approfondire dovrebbero sempre esistere book-shops e audioguide – meglio sarebbe infine affidarsi a frasi che evochino, orientino ed emozionino il visitatore, al quale si lascerà poi la facoltà di leggere didascalie e introduzioni a vetrine e oggetti, purché redatte in un linguaggio di forte impatto comunicativo.
Oggi un museo che voglia diventare polo d’attrazione culturale e centro di ricerca non deve partire dalla prospettiva di un pareggio di bilancio e di una gestione dell’esistente, ma pianificare investimenti, adottare strategie di comunicazione, innovare, mettersi in rete con altri musei dei 28 Paesi d’Europa e di quelli dell’area mediterranea, progettare eventi. E ai devoti della religione ragioneristica e contabile qualche politico trovi il coraggio di spiegare, oltre che il primato della politica sull’economia come necessità di qualsiasi rinascimento, che una struttura di forte attrattiva e molto visitata determina profitti per sé nella limitata dimensione della bigliettazione, dei servizi accessori (libreria, caffetteria, etc.), degli eventi temporanei; e per tutti nella più vasta dimensione del sistema-turismo di cui fa parte.