Ischia, con i suoi 8,14 km quadrati, il cui nome deriva da «Insula Maior» poi corrotto in «Iscla», è la città capoluogo dell’isola. È divisa in due nuclei, «Ischia Porto» che ne rappresenta uno dei principali abitati e «Ischia Ponte» chiamata in questo modo per via del ponte in muratura – in legno, fino al ‘700 - che collega il Castello Aragonese con il borgo.
Con i suoi 19 mila abitanti circa comprende un popolo che ha fatto della solidarietà e dello spirito di condivisione i saldi pilastri sui quali poggiano la storia e la tradizione. Ischia Ponte e la sua baia che disegna architetture naturali si svela, si racconta e diventa luogo ideale da percorrere nella memoria sublimata nelle descrizioni di chi ne ha condiviso e ne partecipa tuttora lo spirito e l’essenza.
È un luogo vissuto, da vivere. In cui pur passando il tempo non s’invecchia. È il paradosso in cui l’universo interiore dell’osservatore, non appena si affaccia alla finestra del piano fantastico, rimane prigioniero dello spettacolo che si ripete quotidianamente. È nella scadenza naturale del giorno, mentre le ultime gocce di sole rimbalzano sulla superficie argentea del mare e il sale si mescola alla brezza marina attaccandosi sulla pelle, che il bagaglio tradizionale è evocato sulla terra, sostituendo la dimensione profana con quella mistica e immortale; e trasforma il senso di chi guarda.
Sul ponte, intanto che il Castello s’impone con la sua mole, l’operazione alchemica diventa tangibile e non si potrà più tornare indietro. Siete avvisati. È in questo corto circuito, nel raccordo tra l’umano e il divino, tra il tempo e la sua sospensione, che il nastro dell’immaginazione si avvia grazie alla forza magnetica della reminiscenza a insaputa dello spettatore che, colto di sorpresa, vede scorrere nella mente i racconti di giornate indelebili di bambini con le proprie famiglie: tra spruzzi e venti sulle barche a remi che disegnano nel mare nuove forme, prima che l’acqua scivoli dove vuole, «passando per la marina e proseguendo per la spiaggetta della “Corteglia”, i “Travi”, il Cimitero vecchio si dirigevano fino agli scogli di Sant’Anna».
È Andrea Di Massa – in La Festa delle barche di Sant’Anna, rappresentazioni sull’acqua nella baia di Ischia Ponte, Imagaenaria Edizioni, Ischia 2004 - che narra l’appuntamento di un giorno non ordinario. Il 26 luglio di ogni anno dall’epoca fascista – che in quel periodo mirò a rivalutare le tradizioni locali, e il recupero della ‘Ndrezzata s’inserisce a pieno titolo - è dedicato alle celebrazioni della Festa di Sant’Anna come la conosciamo oggi.
La «Festa a mare» discende da anteriori riti propiziatori radicati nella tradizione che «si davano come scadenze di cicli naturali». Ed è su quest’altalena delle memorie che combacia la ricorrenza cattolica di Sant’Anna, protettrice delle partorienti. Sebbene la definizione negli anni sia stata modificata più volte, da Sagra Marinara a Festa delle barche addobbate, da Sagra del mare a Sfilate di barche allegoriche passando per Festa a mare agli scogli di Sant’Anna, il contenuto originario della ricorrenza «consisteva nell’appiccare il fuoco a numerosi falò che venivano accesi all’imbrunire». Con la legna accumulata durante l’anno, l’accensione iniziava dal Monte Epomeo per poi allargarsi ad altre postazioni «sul Soronzano, sul Cilento, a Campagnano e infine sul cimitero vecchio». I fuochi erano il momento centrale della festa e rivelavano la voglia di rinnovamento e purificazione.
Le gare di nuoto e canottaggio facevano da cornice alla passione e al mito. Prima del 1932, anno ufficiale della Festa in onore della Santa protettrice delle partorienti, il rito seguiva forme arcaiche nelle celebrazioni: lo svago e la pausa ristoratrice e il cibo consumato a mare dalle famiglie di pescatori sulle barche una sera d’estate esprimevano il sentimento di comunione prima che questi, una volta sbarcati i familiari sulla terraferma, partissero per lunghi periodi di pesca.
«A rendere indimenticabile un 26 luglio di tanti e tanti anni fa, ci pensò il marito di mia sorella Memena, Luigino, pescatore. Poco prima del calar del sole cominciò a preparare la sua barca come per uno strano rito che non avevo mai visto. Di lì a poco ci trovammo tutti riuniti sul ponte: io, che avevo circa sei anni, mia madre, mia sorella e altri parenti. Salimmo sulla barca. Mi accorsi che non eravamo soli. In tanti, famiglie intere, si erano imbarcati e ora tutte le barche si dirigevano veloci verso la “corrente”, per andare al di là del ponte aragonese. Arrivati nello specchio di mare dall’altra parte del Castello, sempre calmo in quel tempo d’estate, le barche puntarono tutte insieme verso gli scogli di Sant’Anna».
Erano tutte persone della zona di Ischia Ponte e della Mandra, remavano tra i flutti che ne ritmavano il tempo in un’unica direzione: verso la chiesetta dedicata alla Santa per fermarsi lì in silenzio. Come se l’intero paese si fosse dato appuntamento sotto la collina di Soronzano per aspettare sulle barche, insieme, la sera. E nella calma che annunciava la notte il bagliore del falò vicino la chiesetta trasformava lo sfondo e portava a nuova vita l’anima serena rinnovata dalle risate scortate da musica, dalle voci, dai canti e dai pochi gesti con i quali si tirava fuori la cena dalle ceste sistemate sotto la pancia delle imbarcazioni. Il menù era uguale per tutti: coniglio alla cacciatora, parmigiana di melenzane e vino.
Quando il falò vicino la chiesetta cominciava a esaurirsi, scoccata la mezzanotte, tutti ritornavano alle proprie case. I pescatori, quelli no, sarebbero rientrati il mattino successivo con il prezioso carico di pèrchie e pint’’e rré seguendo la rotta del nuovo giorno.