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L'economia italiana si trasforma: sarà sempre più apolide

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Al Censis il secondo dei quattro incontri del tradizionale appuntamento di riflessione di giugno «Un mese di sociale», dedicato quest’anno al tema «Rivedere i fondamentali della società italiana»
L’economia italiana si trasforma: sarà sempre più apolide
Si rafforza la presenza oltre confine delle nostre multinazionali: +8,9% di imprenditori per il mondo rispetto al 2007, +23,4% di addetti, +40,4% di fatturato. E cresce il valore dell’export delle aziende nazionali: +5,7% dal 2007

Roma, 11 giugno 2015 – L’economia apolide ci salverà. Dei primi 15 gruppi industriali italiani per volume d’affari oggi sono soltanto in 2 a realizzare in Italia la maggior parte del loro fatturato. Per tutti gli altri il giro d’affari all’estero vale tra il 60% e l’80% del fatturato complessivo. Negli anni della crisi l’economia italiana ha sofferto a causa del crollo della domanda interna, della caduta degli investimenti produttivi e del peggioramento della finanza pubblica. E le multinazionali italiane hanno reagito rafforzando la loro presenza oltre confine. Anche le grandi imprese di costruzioni italiane, che nel periodo 2004-2013 hanno registrato una caduta del 7,2% del fatturato interno a causa del crollo degli investimenti pubblici, hanno incrementato del 204,6% il fatturato realizzato all’estero, con il risultato che oggi questa componente rappresenta due terzi del loro giro d’affari.

Aumentano le aziende italiane che esportano, ma sono piccole. Sono 212.000 le imprese italiane che esportano (+3,5% rispetto al 2007) e il valore complessivo delle merci vendute all’estero (più di 380 miliardi di euro) è aumentato del 5,7% dal 2007 a oggi. La crescita del numero di aziende esportatrici è sicuramente un fatto positivo, ma la loro incidenza sull’export complessivo è davvero limitata. La maggior parte degli operatori (il 63,9% del totale) si addensa nella classe più bassa di valore esportato (sotto i 75.000 euro annui). Colpisce che un complesso di circa 135.000 esportatori determini un valore di export di poco superiore a 2,3 miliardi di euro, un’inezia rispetto al valore totale delle esportazioni italiane (lo 0,6%). Si tratta di poco meno di 17.000 euro medi per esportatore. Per contro, le grandi aziende, quelle che vendono all’estero per un valore superiore a 50 milioni di euro annui, pur essendo solamente lo 0,4% del totale (942 soggetti), rappresentano da sole quasi la metà dell’export italiano (circa 187 miliardi di euro). A ciò si aggiunga che una miriade di soggetti (più di 90.000) hanno come riferimento un solo Paese di destinazione delle loro merci. Sono solo 4.200 le imprese che invece vendono i loro prodotti e servizi in più di 40 Paesi esteri (realizzando il 43% circa delle vendite complessive dell’Italia all’estero).

La polarizzazione territoriale: tutte al Nord. Nella sola Lombardia si concentra un terzo delle aziende esportatrici e del valore dell’export. Se alla Lombardia si sommano Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna, si raggiungono i due terzi dell’export italiano complessivo. Dal Sud si origina solamente il 9% delle esportazioni nazionali in valore.

Piccole multinazionali crescono. Si rafforza la presenza imprenditoriale italiana all’estero: oggi circa 22.000 imprese estere sono controllate da società italiane e occupano 1,7 milioni di addetti (rispetto al 2007 l’aumento è di circa 2.000 imprese e 330.000 addetti). Mentre si riducono le multinazionali estere presenti sul territorio nazionale (da 14.401 a 13.328 in cinque anni) e i loro addetti (da 1,24 milioni a 1,19 milioni), aumentano le multinazionali italiane all’estero (+8,9% dal 2007) e la forza lavoro impiegata (+23,4%). Ma soprattutto aumenta il loro fatturato, che passa da 389 miliardi di euro a 546 miliardi (+40,4%). Il Paese dove sono penetrate maggiormente è la Romania (3.237 aziende e 117.221 addetti), ma il territorio dove operano le aziende più grandi è quello degli Stati Uniti (2.066 aziende per 225.450 addetti, con un fatturato che da solo vale il 18% delle multinazionali italiane nel mondo).

Nell’economia apolide, il territorio di insediamento originario conterà ancora? Sì, a condizione che sappia modificare il tipo di valore che trasferisce alle imprese rispondendo a domande differenti da quelle del passato. Oggi ai territori non si chiede più di essere solo accoglienti, ma di caratterizzarsi come «hub» che connettono con il mondo. Non più solo istituzioni di prossimità, infrastrutture e servizi locali. I territori produttivi devono aprirsi all’esterno, creare le condizioni di insediamento di imprese innovative e sviluppare relazioni, aiutando le imprese presenti a «stare nel mondo».

«L’economia apolide» è l’argomento di cui si è parlato oggi al Censis, a partire da un testo elaborato nell’ambito dell’annuale appuntamento di riflessione di giugno «Un mese di sociale», giunto alla XXVII edizione, dedicato quest’anno al tema «Rivedere i fondamentali della società italiana». Sono intervenuti il Presidente del Censis Giuseppe De Rita e il responsabile dell’area Economia e Territorio Marco Baldi, Paolo Baratta, Presidente della Biennale di Venezia, e Gad Lerner, giornalista e scrittore.

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