Si è perso il conto da quanti anni si discute di una SERIA riforma costituzionale in Italia. I francesi – dai quali mutiamo in peggio tutto – si accorsero nel 1958 – appena 12 anni dopo la sua costituzione – che la IV Repubblica tutta fondata sul parlamentarismo conteneva una instabilità permanente dei Governi che metteva in gioco la stessa sopravvivenza di una Nazione che era ancora una potenza mondiale. Ma – se la Storia si facesse sui “se”ed i “ma”– probabilmente chissà quando sarebbe nata la V Repubblica con il ritorno al potere del generale Charles de Gaulle, il più “illustre dei francesi”come lo chiamò l’ultimo Presidente della IV Repubblica Coty, se non ci fosse stata la guerra d’Algeria ed il tentativo del colpo di Stato dei generali di Algeri. Fu quel fatto traumatico che riportò de Gaulle al potere e fece della Francia una “Repubblica semipresidenziale” con forti poteri del Capo dello Stato e con un Parlamento dal solo ruolo legislativo e fondato soprattutto sull’importanza dell’Assemblea Nazionale. Nessuno avrebbe scommesso un franco o un dollaro che la V Repubblica sarebbe sopravvissuta a de Gaulle. Quella Costituzione sembrava scritta appositamente per lui e nessuno credeva che invece sarebbe durata anche dopo di lui sia pure con revisioni ed addirittura presa in esame dai “cugini”italiani per riformare la loro “Repubblica parlamentare”.
In Italia si discute di modificare il modello di Repubblica con un parlamentarismo eccessivo da almeno 40 anni e sistematicamente si fanno riforme “parziali”che invece di migliorare il sistema lo peggiorano. Senza modificare formalmente la Carta del 1948 attraverso una legge elettorale – cioè ordinaria non costituzionale – si è di fatto personalizzata la lotta politica con “partiti personali”che indicano il nome del candidato premier sulla scheda elettorale togliendo il potere di fatto al Presidente della Repubblica di “nominare il Presidente del Consiglio”. Oggi con incredibile faciloneria si parla di “costituzione materiale”rispetto alla “costituzione formale”. Berlusconi si dichiara “eletto dal popolo”con un Parlamento di “nominati”eletti con una legge elettorale che è una porcata tanto che viene chiamata “porcellium”.
Non partendo dall’alto il rinnovamento della forma di Stato è partito dal basso – altra assurdità – così sotto la pressione del movimento referendario di Mario Segni è stata approvata la legge nel 1993 sull’elezione diretta del sindaco istituendo, di fatto, un “presidenzialismo”a livello di Comuni e Province con un sindaco-podestà che ha ridotto il Consiglio Comunale ad un ruolo marginale. Si è passato da un eccesso all’altro e invece di riformare prima di tutto lo Stato si è tentato di riformare i Comuni e le Province senza nemmeno organizzare un accorpamento dei comuni-polvere e rivedere i livelli di potere locale.
Il vice capogruppo del PD alla Camera dei Deputati, Alessandro Maran ha scritto un articolo che appare nel numero 29 del settimanale web “Qualcosa di Riformista” dal titolo “più coraggio su province e comuni”dove sostiene la necessità di “mettere ordine nella casa della politica: la Pubblica Amministrazione”
“Non si capisce perché l’Italia debba avere quattro livelli territoriali costituzionalmente garantiti: lo Stato, Le Regioni, le Province e i Comuni. La Francia prevede in Costituzione i Comuni ed i Dipartimenti; la Germania i Comuni e i Lander. Questo non vuol dire che non esistono altri livelli territoriali (le Regioni in Francia, i Distretti in Germania) ma non sono enti politici costituzionalmente garantiti bensì luoghi di coordinamento territoriale”scrive Maran che sottolinea quindi l’opportunità di abolire le Province e di accorpare i Comuni.
“La dimensione territoriale dei nostri Comuni è ancora quella del Medio Evo: la distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade di allora nelle ore di luce. Ma oggi l’economia del paese ha bisogno di avviare grandi trasformazioni e il ripensamento di un’organizzazione territoriale finora policentrica e dispersa costituisce forse il capitolo più importante di questo progetto”aggiunge ancora Alessandro Maran.
Maran riferisce anche che altri paesi d’Europa hanno avviato la riforma degli enti locali. In Germania ogni Land ha usato le ricette più convenienti per gli accorpamenti dei Distretti. In Danimarca hanno ridotto i Comuni da 1388 a 275, in Belgio da oltre 2500 a meno di 600, in Inghilterra da 1830 a 486.
“Insomma – conclude Maran – quello delle cento città è un mito antico della politica italiana ma questa deve rinnovare le sue parole d’ordine se vuole affrontare le sfide del futuro”.
Maran tuttavia non accenna – ed avrebbe dovuto farlo – di rinnovare prima di tutto lo Stato con la riforma costituzionale che prima di tutto dovrebbe abolire, perché inutilmente e costosamente ripetitiva, una Camera e cioè il Senato rendendo il sistema “unicamerale”. Il bicameralismo perfetto – due Camere con identici poteri – esiste solo in Italia e nel piccolo Belgio. In Francia il Senato è eletto dai consiglieri comunali e comunque non è essenziale per approvare tutte le leggi mentre in Inghilterra la Camera dei Lords non è elettiva non approva le leggi ed è mantenuta solo per tradizione. Se l’Italia può permettersi finanziariamente – e non mi pare – un Senato con poteri non uguali a quelli della Camera comunque per efficienza legislativa lo faccia ma non si può continuare con un bicameralismo perfetto. Così non si può consolidare una vera Democrazia Repubblicana con una legge elettorale che si definisce porcata e che allontana i cittadini dalla politica invece di avvicinarli. Gli esempi di riforma devono venire dall’alto e poi estendersi al basso e l’abolizione dei privilegi dei politici di oggi definiti “la Casta” è la prima riforma di costume da fare.
Riformato in senso di autentica e di efficiente partecipazione lo Stato con una sola Camera, un ritorno al sistema elettorale proporzionale con uno sbarramento del 5% alla tedesca, tale da realizzare formalmente una Seconda Repubblica che sarebbe molto simile a quella francese o tedesca, si dovrebbe avviare il rinnovamento degli enti locali abolendo la Provincia ed accorpando i Comuni per Comprensori come il caso emblematico dell’isola d’Ischia che per dimensione economica e sociale riceve un danno dallo spezzettamento in sei Comuni istituiti nel 1806 dalla dominazione francese quando si tenne conto probabilmente della “distanza che si poteva percorrere a piedi sulle strade nelle ore di luce”.
La battaglia per il Comune Unico dell’isola d’Ischia – che sembrava perduta con la bocciatura del referendum consultivo indetto dalla Regione Campania lo scorso 5 giugno - è ben lontana dal concludersi. Anzi la recessione economica nazionale e mondiale la ripropone ogni giorno e chi l’ha proposta e sostenuta non era affatto un visionario. Aveva soltanto buon senso. La più rara delle virtù eternamente in minoranza nonostante l’evidenza dei fatti.
Casamicciola, 29 settembre 11