Eugenio Scalfari, 88 anni, fondatore di “La Repubblica” e de “L’Espresso”, l’ultimo dei Grandi Giornalisti italiani del dopoguerra che ha raccontato la sua giovanile, e perciò fondamentale, esperienza professionale e politica nel libro “La sera andavamo in via Veneto – Storia di un gruppo dal “Mondo” alla “Repubblica” (Arnaldo Mondadori Editore – 1986),
nel suo domenicale su “La Repubblica” del 30 settembre 2012 dal titolo: “Come arrivare al dopo Monti in salute” ha affermato a proposito delle cosiddette primarie del centro-sinistra che “Se Renzi vincerà le primarie il PD si sfascerà ma non perché se ne andrà D’Alema o Veltroni o Franceschini, ma perché se ne andranno tutti quelli che fin qui hanno votato Pd come partito riformista di centrosinistra. Non a caso Berlusconi loda Renzi pubblicamente; non a caso i suoi sponsor sono orientati più a destra che a sinistra e non a caso lo stesso Renzi dice che queste due parole non hanno più senso. Hanno un senso, eccome. Nell’equilibrio tra i due fondamentali principi di libertà e di eguaglianza la sinistra sceglie l’eguaglianza nella libertà e la destra sceglie la libertà senza l’eguaglianza. Questa è la differenza e non è cosa da poco. Io sono liberale di sinistra per mia formazione culturale. Ho votato per molti anni per il partito di Ugo La Malfa (il Partito Repubblicano Italiano n.d.a). Poi ho votato il PCI di Berlinguer, il Pds, i DS e il PD. Se i democratici andranno alle elezioni con Renzi candidato, io non voterò perché ci sarà stata una trasformazione antropologica nel Pd, analoga a quella che avvenne nel Partito Socialista quando Craxi ne assunse la leadership, senza dire che Craxi aveva una visione politica mentre Renzi non pare che ne abbia alcuna salvo la rottamazione. Francamente è meno di niente”. Parole durissime e chiare che testimoniano il disagio o l’ira di un “liberale di sinistra” di militare nel “Partito Democratico” alla cui costruzione egli ha dato un contributo fondamentale.
Ma Scalfari non dice cose altrettanto importanti e significative della sua stessa vita professionale e politica che è stata un tutt’uno. Scalfari è stato “socialista”. Quando alla fine degli anni ‘ 60 scoppiò lo scandalo dei servizi segreti del Sifar e “L’Espresso” condusse la grande campagna a difesa della democrazia repubblicana Pietro Nenni , segretario del PSI, offrì a Scalfari e Jannuzzi una candidatura al Parlamento. Scalfari è stato deputato del PSI dal 1968 al 1972 e nelle elezioni del 1972 non fu rieletto. Riceve per questo suo mandato parlamentare una pensione di 2400 euro mensili che ha dichiarato di voler rinunciare ma gli hanno risposto dagli Uffici della Camera che non è possibile. “La Repubblica” nel 1976 nacque soprattutto come giornale “socialista” con l’obiettivo di realizzare una sinistra riformista in Italia sul modello del Partito Socialista francese di Francois Mitterrand capace di trasformare i comunisti in “socialdemocratici” al pari dei “liberali di sinistra”. Scalfari avvertì prima degli altri, probabilmente, il “mutamento antropologico” del PSI di Craxi che divenne un partito di “nani e ballerine” come lo definì il socialista Rino Formica ed individuò nel PCI di Berlinguer la forza della sinistra capace di ereditare il riformismo della tanto sognata “Terza Forza” laica e “liberale di sinistra” che lui aveva progettato proprio con Mario Pannunzio, il mitico direttore de “Il Mondo”, quando “la sera andava in via Veneto” con i suoi amici de “Il Mondo” negli anni ‘ 50 e ‘ 60.
Non dice nemmeno come – dopo esser stato per cinquanta anni soprattutto un “laico ed anticlericale” contro il partito “confessionale”, de facto, della DC che fu il partito dei cattolici e del Vaticano – abbia potuto immaginare che in Italia potessero militare nello stesso partito i “postdemocristiani” ed i “postcomunisti” che non potendosi definire in un altro modo si sono detti semplicemente “democratici” , come se l’aggettivo usato per 50 anni come pre-condizione politica ma mettere semmai prima del sostantivo “socialista” o “comunista”, potesse essere identificativo di una identità politica di “sinistra” che si allontanava sempre di più nella sua identità tale da trasformarsi in “centrosinistra”, come lo chiama Scalfari senza il trattino tra “centro” e “sinistra” dimenticando che nella politica italiana ,come ammoniva Benedetto Croce, l’unico Centro era il Partito Liberale Italiano .
Credo che queste riflessioni – se fossero state fatte – dal Maestro, semantiche solo nell’apparenza, avrebbero chiarito meglio il “caso italiano”, dove per la tragedia di tangentopoli del ‘ 92 – ormai vent’anni fa - che colpì soprattutto ma ingiustamente SOLO il Partito Socialista Italiano, un partito dell’unica sinistra possibile al tempo della “seconda globalizzazione capitalistica della Storia” – secondo Eric Hobsbawn - cioè “socialdemocratica” o “socialista” o “laburista”, non possa chiamare se stesso come dovrebbe e cioè semplicemente “SOCIALISTA”.
Ma quale significato dare a questa parola o sostantivo? Quali sono le sue radici ? e perché Scalfari preferisce ancora definirsi “liberale di sinistra” e non si dichiara odierno “democratico” e rinnega un passato “socialista”? Come possono i postcomunisti che per almeno 30 anni hanno avversato i socialisti – gente come Francesco De Martino e Riccardo Lombardi - che volevano le “riforme di struttura” nell’unico centro-sinistra (con trattino) della storia politica italiana che fu quello degli anni ’60 , definirsi oggi “socialisti”? Hanno questo coraggio? Hanno questa umiltà intellettuale di affermare che gente come Nenni, De Martino, Lombardi e Giolitti ed intellettuali come Guido Calogero e Norberto Bobbio che “seminavano dubbi e non raccoglievano certezze” avevano visto giusto fin dal 1956? Ed i postdemocristiani che per 40 anni ,poco meno o poco più, hanno mantenuto una “pregiudiziale anticomunista” come possono definirsi “socialisti” e stare nel medesimo partito?
L’aggettivo “democratico” per fare il partito dei postcomunisti e dei postdemocristiani era quindi per loro l’unico praticabile. Ma è insufficiente e alla fine le contraddizioni vengono a galla.
Credo che l’unica possibilità di un rinascimento della “sinistra” in Italia è quella di definirsi “SOCIALISTA” nel significato che gli dava Carlo Rosselli. Bisognerebbe attuare una grande campagna di divulgazione del libro “Socialismo Liberale” di Carlo Rosselli pubblicato a Parigi nel 1930 in francese dal fondatore di “Giustizia e Libertà” ucciso dai fascisti francesi sette anni dopo con il fratello Nello a Bagnoles sur l’Orne. Aveva solo 38 anni quando è stato ucciso. Ne aveva 31 quando ha scritto il libro, quando ha teorizzato un liberalismo compatibile con il socialismo e senza il comunismo ed il marxismo. Ma chi era questo “eretico” sia del liberalismo che del socialismo? Come poteva definire se stesso con un termine solo? Avrebbe dovuto dirsi come oggi fa Scalfari “liberale di sinistra” o “socialista di destra”?
Lo chiarisce lo stesso Rosselli nell’“appendice” del libro che intitola “i miei conti col marxismo” e fissa in 13 punti “quello che ha capito” e le chiama “tesi” perché “il tredici porta fortuna e chi vivrà vedrà”. Domanda prima di tutto a se stesso: chi sono?
Risponde: sono un socialista.
Casamicciola, 12 ottobre 2012