Dal Teatro dell’Elfo agli Oscar e ritorno, una carriera straordinaria dalla commedia ai supereroi.
Un bravo regista gira ogni suo film come fosse l’ultimo. Un grande maestro, invece, sempre come fosse il primo.
Gabriele Salvatores è un esordiente continuo, alla ricerca di qualcosa che non conosce e che può esplorare con il suo talento, la curiosità, la capacità di cambiare lente al suo sguardo e non solo alle sue macchine da presa. Gabriele è un punk che non rinuncia a essere pop, è Truffaut che sa diventare Chabrol, non ha mai smesso di essere lo stesso ragazzo che fu l’anima di quel collettivo straordinario e irripetibile che fu il Teatro dell’Elfo.
Doveva fare l’avvocato, voleva essere una rockstar, è diventato un grande artista, un cineasta imprevedibile e geniale. Instancabile e insaziabile, ama ricambiato il cinema con passione totale: a dimostrarlo è anche, ora, l’impegno preso con il Milano Film Festival, da direttore, pochi mesi fa.
O il seguire per anni il progetto di una minisaga su un supereroe teen italiano, Il ragazzo invisibile, operazione artistica, creativa e produttiva - insieme a Nicola Giuliano, altro cacciatore di sogni - ambiziosa (quasi) come lo fu, nella sua carriera, quel Nirvana che tutt’ora è un capolavoro da troppi sottovalutato.
Salvatores è la trilogia della fuga, è l’Oscar con Mediterraneo quasi ignorato - da lui, non dagli altri - per rimanere se stesso e continuare il viaggio che voleva e non quello che gli conveniva fare. Le tappe: gli anni ’70 del teatro dell’Elfo, fenomeno politico e di costume, gli ’80 delle storie picaresche, i ’90 che lo vedono spaziare nei generi - pensate a che film geniale e spiazzante sia Denti -, i 2000 che lo vedono vorace adattatore noir di penne ispirate, da Ammaniti alla Verasani per arrivare a Nicolai Lilin. Impressiona la sua capacità di percorrere le oscurità, le fragilità, le contraddizioni. Di disegnare la paura sui suoi personaggi come i tatuaggi di Educazione siberiana, ma allo stesso tempo di illuminare scene, sentimenti, speranze.
Non smette, mai, di consegnare al pubblico un’opera imprevedibile. Pensiamo a Happy Family: nell’ondata noir (non casuale, si pensi al progetto della Colorado con Totti e Dazieri) che lo aveva investito nel nuovo millennio, ecco una commedia quasi debordiana nel voler destrutturare le consuete linee narrative del cinema italiano. Cita Fellini, Wes Anderson e Bryan Singer, Stanlio e Ollio e se stesso (Marrakech Express, uno dei suoi film più belli, con un’irresistibile scena tra Bentivoglio e Abatantuono), si diletta nel tratteggiare una famiglia totalmente lontana dagli stereotipi sociali e cinematografici, si diverte a offrirci un racconto metacinematografico prezioso nel mostrarci la sua libertà totale e nel raccontarci l’immaginario senza recinti di quest’artista. Non a caso, lì, regala a Fabio De Luigi un ruolo che ne avrebbe fatto il Peter Sellers italiano se solo i nostri produttori fossero meno pigri e svogliati. Non ha paura di nulla, Gabriele, se non forse di sedersi, di accontentarsi.
“E se ti accontenti, se sei troppo soddisfatto, sei vicino alla morte” ha confessato in un’intervista a Gianmaria Tammaro. Racconta sempre che dell’Oscar vinto al quarto film diffidava, come se potesse in qualche modo ingabbiarlo. Ma se uno è Kamikaze(n) dentro, non c’è pericolo. Se poi ha una visione politica dell’arte, nel senso più alto del termine, per formazione culturale e creativa, allora hai il cineasta più coraggioso del dopoguerra.
“Al quarto film, con Mediterraneo, ho avuto la fortuna di vincere un Oscar, e ho pensato che nella vita qualcosa bisogna anche restituire. Come potevo usare il superpotere dell’Oscar? Forse, mi sono detto, provando a fare cose che il cinema italiano allora non faceva”.
Non ha mai smesso di provarci e riuscirci, anche nel cercare nuovi visi, nuovi talenti. I suoi cast, in passato espressione di un gruppo coeso e proiettato in un progetto comune, ora di una ricerca curiosa e costante di nuovo, che siano attori esordienti o s de da lanciare a chi comincia ad avere curriculum troppo rassicuranti, lo dimostrano. Non si può premiare la carriera di chi ne ha avute almeno quattro.
E ne avrà almeno altrettante. Si può solo ricordare a tutti, come faremo noi all’Ischia Film Festival, che Gabriele Salvatores è il più entusiasmante, ostinato (e pure un po’ contrario) esordiente del nostro cinema. E continuerà a esserlo.