2. Il viaggio
Non esistono collegamenti marittimi pubblici da Ischia al Giglio. Per questa ragione bisogna viaggiare in parte via terra, p. es. da Napoli con un IC diretto verso Pisa - Genova fino a Orbetello, dove un autobus (linea 1) che fa capolinea proprio davanti alla stazione ferroviaria, preleva le persone che vogliono imbarcarsi per le isole a Porto S. Stefano. (info su www.ilgiglioinfo.it)
Da Porto S. Stefano due linee di traghetti (Toremar e Maregiglio) trasportano uomini e mezzi fino a Giglio Porto, in agosto solo con permesso di circolazione. Dalla fine di maggio ai primi di settembre è attivo anche un servizio di pullman che trasporta i turisti, nel solo fine settimana, direttamente da Roma a Porto S. Stefano.
Naturalmente esiste anche la possibilità di andare in automobile fino all'imbarco, ma, arrivati al Giglio, anche se vi sono strade carrabili, viaggiare su gomma, almeno per chi apprezza il trekking, è un vero peccato. Sull'Isola del Giglio le autolinee RAMA collegano con la linea Giglio Porto - Giglio Castello - Campese regolarmente le tre principali località. Le attrezzature per gli sport subacquei e per la pesca si possono trasportare benissimo via mare riducendo al minimo la circolazione degli autoveicoli.
In estate esiste la possibilità di andare in aliscafo a Ventotene, poi a Ponza e di lì a Formia dove l'avventura per mare finisce, perché dal porto non resta che salire verso la stazione ferroviaria e proseguire in treno per Orbetello.
3. Torre, torrione e guardie costiere
La Torre Medicea del Campese, costruita per proteggere i fondali della baia da pescatori, anzi da corallari di frodo napoletani, è situata a livello troppo basso rispetto a quello del mare per fungere da torre d’avvistamento e tantomeno da faro. Eppure nel 1753 ebbe un ruolo di grande importanza nel respingere l’assalto di una galeotta turca. Gli aggressori vennero ricacciati in mare dagli uomini di guardia che occupavano la torre[1].
Un ventennio dopo invece, nel 1779, alla vigilia dell’occupazione napoleonica della Toscana, il presidio militare del Campese agli ordini del generale francese Gautier, lasciò sbarcare dei pirati tunisini che riuscirono a raggiungere il borgo e il Castello sull’altura centrale dell’isola, ma furono respinti dalla strenua resistenza degli abitanti[2].
Scrivendo questi appunti a Forio, a pochi metri dal Torrione, emblema della cittadina ischitana, “[torre] altissima da dominare l’intero abitato, profondissima da incontrare il livello del mare”[3], costruito nel 1480, per l’avvistamento e la difesa dalle incursioni dei pirati, non si può, naturalmente, a prescindere dalla datazione e dalle caratteristiche monumentali, non stabilire un collegamento ideale e funzionale con la Torre Medicea del Campese. Entrambi gli edifici, torre e torrione, vigilarono nei secoli, affacciati verso il mare aperto sulle rotte delle navi a Ovest delle due isole, provenienti sia da Nord, sia da acque meridionali.
Ma vi fu mai una postazione di “guardia costiera” al Campese, situata in posizione più eminente sul livello del mare? Leggendo gli atti di un convegno internazionale di studi (Scansano, 9-10 sett. 2005) che ha per oggetto “l’archeologia della vite e del vino in Etruria”[4], apprendo che su una modesta collina denominata Castellare del Campese, a ridosso della baia, scavi archeologici eseguiti tra il 1987 e il 1992 portarono alla luce i resti di un edificio ovale.
“Una ‘capanna’ di pianta approssimativamente ovale, orientata est-ovest, lunga circa 5 m, larga poco più di 2 m (Fig. 2). L’edificio è in parte costruito in elevato, in parte scavato nella roccia, fino alla profondità di un metro circa; le pareti sono rivestite di grandi blocchi di granito, rinzeppati con schegge e scaglie; sulla parete orientale, pressoché rettilinea, sembra di riconoscere l’alloggiamento di uno dei pali che dovevano sorreggere la copertura. La datazione è assicurata dai materiali, estremamente coerenti, finiti nelle stratificazioni sedimentatesi nell’interno della cavità, sotto un vero e proprio strato di crollo: bucchero
dell’abitato dagli approvvigionamenti esterni, secondo la tipica situazione degli approdi di avvistamento”[5], scrivono gli autori del contributo. Ulteriori particolari si leggono in una pubblicazione della École Française deRome[6]: “L’aspetto curiosamente “arcaico” dell’edificio deriva probabilmente dai condizionamenti ambientali: la vetta della collina è infatti esposta a tutti i venti, di violenza talora insospettata, ed un edificio interamente costruito in elevato era destinato ad essere letteralmente spazzato via”. Dunque nel VI secolo a. C. un edificio per l’avvistamento in posizione elevata al Giglio c’era: era etrusco e di forma ovale.
Lo stesso volume che raccoglie gli atti del convegno di Scansano a p. 56[7] pubblica la planimetria di un edificio ovale identificato come “casa del vignaiolo di Punta Chiarito a Ischia, VI secolo a.C.”.
Alla planimetria affianchiamo una fotografia.
“All’esterno, a tre metri dalla porta, si trovava una vasca in pietra, di forma ovale irregolare, probabilmente
un pigiatoio per il vino o la base di un torchio a leva (Fig. 2). L’attrezzatura era completata da una roncola per potare le viti, un coltello ricurvo per staccare i grappoli e numerose giare per la fermentazione e la conservazione del vino. Nello scavo è stata trovata anche una notevole quantità di vinaccioli”.
Ma: “Poiché nessun impianto di vinificazione in pietra o in muratura è stato ritrovato nelle colonie greche d’Occidente, dove la produzione di vino è ben attestata, è verosimile che in Magna Grecia e in Sicilia venissero usati strumenti di legno”. La vasca in pietra di Punta Chiarito come pigiatoio per il vino o base di un torchio a leva costituirebbe dunque un’eccezione. Ma quanti sono i vinaccioli in “notevole quantità”?
Il testo citato dall’autore[8] in realtà parla di “un vinacciolo” e così la relazione preliminare sugli scavi[9]. L’analisi paleobotanica di tale unico seme effettuata da S. Coubray[10] ipotizza trattarsi di un vitigno locale con le caratteristiche del vitigno selvatico. Né la relazione preliminare (1994), né quella successiva (1998), parlano di utilizzo della vasca come pigiatoio o base di un torchio a leva, bensì genericamente di uso “legato alla lavorazione di generi alimentari”, louterion (per l’igiene personale) o ad altro uso meno elevato, ad es. un mortaio o un truogolo per animali”[11]. L’ipotesi della presenza di un “vignaiuolo” a Punta Chiarito probabilmente è suggerita dal fatto che “due piccole fossette circolari” furono “interpretate tentativamente, durante lo scavo come tutori utilizzati per sostenere le viti”. Situate a lato di una di tre piccole fosse di dimensioni diverse, riconosciute come “fosse di coltivazione”[12], sarebbero state sede di sostegni per la pianta, senza alcun ragguaglio sull’aspetto di tale coltivazione, né alcun raffronto con analoghe applicazioni (tutori in viticoltura[13]) in epoche contemporanee o anteriori in ambito greco, né alcuna verifica sulle caratteristiche geofisiche del sito (climatiche, natura del suolo, irrigazione) in riferimento alla presunta viticoltura che Cantarelli-De Francesco[14], a ragione, negano decisamente. Anche l’analisi paleobotanica degli altri reperti alimentari[15], insufficienti, per quantità e qualità (in conseguenza delle proporzioni ridotte dalla carbonizzazione), non ne evidenzia la domiciliazione o la coltivazione in loco. Potrebbe trattarsi di residui alimentari riconducibili alla consumazione di un pasto, alla dispersione di provviste, oppure a meno nobile origine: la defecazione[16].
Ma se la capanna ovale non era la casa di un vignaiuolo o di un agricoltore, quali furono le ragioni dell’insediamento di Punta Chiarito? Limitandoci, per ora, a rilevare le analogie e le differenze tra l’edificio ovale del Campese e quello del Chiarito.
La prima identica e desolante caratteristica comune ai due siti archeologici è che non possono essere visitati, né sono visibili. In questo senso il mio viaggio al Giglio è stato inutile, ma non del tutto. Mentre cercavo il sito gironzolando a piedi nella zona del Campese alle spalle del campo sportivo, lungo la via dell’Allume incontrai un gruppo di persone, tra cui il sindaco Sergio Ortelli, che stava uscendo dalla Centrale dell’Enel. Uno degli operai seppe indicarmi esattamente la collina e il punto in cui si trova lo scavo, aggiungendo però che il percorso per raggiungerlo è impraticabile, perché coperto di rovi e altrettanto il sito, in proprietà privata. Tale informazione mi fu confermata da un giovane collaboratore della Pro Loco gigliese, Michele Galeotti, che gestisce un negozio di alimentari e di souvenir enogastronomici al Campese. Successivamente provai ad avvicinarmi alla zona in cui si trova lo scavo partendo non dal litorale, ma da Giglio Castello, per raggiungere a piedi la baia; a un certo punto però mi fermai per tornare indietro, perché non c’era più il sentiero. Dunque non ho visto lo scavo del Campese con i resti dell’edificio ovale, ma so dove si trova.
Al Campese esiste anche un altro sito archeologico del VI secolo a. C. invisibile da terra. E’ ancor più difficilmente raggiungibile per la semplice ragione che è submarino, a 50 metri di profondità; viene indicato in un punto non distante dalla costa denominato “secca dei Pignocchi”. Ma su questo torneremo.
Anche i resti dell’edificio ovale del Chiarito e di altri due che lo affiancano sullo stesso paleosuolo, sono ormai invisibili, ma si possono comodamente raggiungere, a piedi o con un automezzo da Panza (Forio), sia percorrendo la via Fumerie, sia la strada che porta alla baia di Sorgeto, nota per le caldissime acque termominerali che sgorgano dai fondali. Il sito è completamente coperto da erbacce e, in parte, da teli di plastica, su cui passeggiano indegni visitatori: topi o meglio, a giudicare dalle dimensioni, ratti. Il cartello “attenzione scavi” si trova a terra, capovolto dietro lo steccato di recinzione. Per questo c’è chi risolve il problema dell’interpretazione del sito pensando e lamentando che si tratti di uno scarico di rifiuti ovvero monnezza.
Questo nonostante che nel 2004 sia stato progettata, con accordi tra il Comune di Forio e la Soprintendenza ai Beni archeologici di Napoli e Caserta la realizzazione di un Parco archeologico del Chiarito[17] e nonostante che al Comune di Forio nell’agosto 2008 sia stato presentato da parte dell’allora Soprintendente Prof. P.G. Guzzo (Soprintendenza speciale di Napoli e Pompei) un progetto per il risanamento e la valorizzazione del sito[18].
Entrambi gli edifici abbandonati al degrado, sono insediamenti storici arcaici (prima metà del VI secolo a.C.): quello del Giglio è etrusco, quello di Ischia greco. Entrambi affacciano su un’ampia baia e sono costruiti con orientamento Est-Ovest, in parte in elevato, in parte scavati nel suolo. I muri furono realizzati a secco con blocchi di granito al Giglio, di tufo a Ischia, rinzeppati con frammenti e scaglie di pietra (Giglio), frammenti ceramici o ciottoli da spiaggia (Ischia).
La casa di Ischia fa parte di un gruppo di tre edifici ovali che si trovano sullo stesso paleosuolo, quella gigliese, invece, non sembra essere affiancata da altre costruzioni.
Ricapitoliamo a confronto:
Le dimensioni della “capanna” del Campese sono inferiori a quelle dell’arcaico insediamento sulla costa meridionale di Ischia, ma la fondamentale differenza tra i due siti consiste nel fatto che lo scavo di Ischia ha evidenziato un sito attivo al momento della scomparsa (come Ercolano e Pompei), sepolto repentinamente da una poderosa colata di fango e sigillato con tutto il suo ricco corredo di ceramiche domestiche, da mensa e da dispensa e un altrettanto ricco strumentario da pesca e da lavoro, quindi prodigo di una quantità di informazioni su chi vi risiedeva e vi operava, mentre il sito del Castellare del Campese ha restituito solo reperti frammentari, in misura limitata.
In compenso, il sito sottomarino che si trova a poca distanza dalla baia del Campese può essere considerato altrettanto attivo al momento della catastrofe da cui ebbe origine: il naufragio di una nave dalla quale fu recuperata parte del carico e dello scafo fornisce una quantità di informazioni non meno significative.
Sia l’edificio di Ischia, sia quello del Giglio sembrano esser stati privi di tettoia esterna, per cui si ritiene che fossero ombreggiati dalla vegetazione. Ombreggiati o forse anche mimetizzati nella vegetazione e nascosti alla visuale dei naviganti? La struttura ovale, in parte scavata nel terreno, è determinata dalle condizioni climatiche, ma anche dalla necessità di stabilizzare un fabbricato sorretto da pietre incoerenti sovrapposte a secco. Proprio tale sistema di costruzione delle pareti che utilizza materiale edilizio prodotto in loco, potrebbe aver condizionato la scelta della pianta ovale. La struttura ovale non è solo arcaica e, nel caso del Chiarito, forse riconducibile al riutilizzo di un edificio più antico, ma anche una scelta dettata dalla natura del suolo e dall’opportunità di integrare la costruzione nell’ambiente in modo da renderla meno visibile per chi si avvicinava alla costa.
L’insediamento di Punta Chiarito era situato a un livello sul mare inferiore all’attuale (ca 50 m s.l.m.) di almeno 20 metri[22], dunque facilmente raggiungibile dalla battigia e in posizione ideale per l’avvistamento di tutto il traffico navale che scorreva a Sud dell’isola proveniente da Sud (Capri, Punta Campanella, ecc.), da Nord/Ovest (Sardegna, Corsica, Elba, ecc.) e viceversa.
La presenza di materiale ferroso originario delle zone metallurgiche toscane è documentata a Ischia sin dal secolo VIII[23].
Perché dunque non riconoscere in Punta Chiarito come
Castellare del Campese nel VI s. un approdo, sia pure
con funzioni diverse[24], lungo la rotta che viene definita
“via del ferro elbano” (dal 550 a. C.), nel contesto degli
scambi commerciali tra Etruschi e Greci?
Prima di approfondire l’argomento, però, non possiamo esimerci dal fare delle considerazioni sui più antichi toponimi delle due isole che, secondo la tradizione, sono entrambi greci ed entrambi zoonimi, cioè animaleschi.
4. Capre gigliesi e scimmie ischitane
Il Giglio non ha nulla di floreale. Non l’isola, ovviamente, che in maggio si ammanta di variopinte fioriture spontanee tra cui il giglio marino (pancratium maritimum) che a Ischia si chiama “giglio di Santa Restituta”[25], protettrice dell’isola, perché quando, secondo un’antica leggenda, la piccola barca con le spoglie della martire cartaginese approdò a Lacco Ameno, nella baia di San Montano spuntarono nella sabbia i delicati germogli bianchi. Il toponimo Giglio, infatti, non ha niente a che fare con l’immagine stilizzata dell’araldica fiorentina, come si è tentati di pensare, ma viene da Igilium[26], latinizzazione di *Igiliun, da *Eigiliun, trasformazione “secondo una tipica trafila fonetica etrusca”[27]di *Aigílion, greco, allotropo di *Aigilía, derivato a sua volta da áix (gr), la capra, sia domestica, sia selvatica. “[Isola] delle capre” dunque, un toponimo insulare largamente diffuso nel Tirreno e nel Mediterraneo in generale, Egeo compreso, oggi come in epoche remote[28]. Perché proprio alle capre compete tanto frequentemente l’onore dell’eponimato? Su isole dal territorio brullo e scosceso, la cui vegetazione predominante è la macchia mediterranea, la presenza di capre selvatiche, come avviene ancora oggi, p. es. alla Gorgona, è un’interpretazione opinabile e funzionale, ma nell’antica toponomastica può anche avere una valenza fortemente simbolica. Nell’immaginario collettivo del Mediterraneo antico la capra assume significati fortemente emblematici e mitologici: áiges, nella lingua dei Dori, sono le onde, da cui Aigáios pélagos, il Mar Egeo. L’egida (scudo ricoperto di pelli di capra) di Giove Egioco rovescia sui naviganti il terrore meteorico di tuoni e lampi; figure mitologiche femminili (Medusa, Gorgona, Chimera) rappresentano per naviganti e pastori il miraggio di presenze femminili legate all’immagine “luciferina”, demoniaca, della capra[29].
D’altro canto, nell’Odissea[30] furti e azioni di pirateria evidenziano le difficoltà negli approvvigionamenti di acqua e di cibo da parte dei naviganti: uno dei criteri dei primi esploratori e dei pionieri greci in Occidente, per identificare, connotare con un eloquente toponimo isole altrimenti sconosciute o semideserte, poteva essere il riferimento a quanto vi era di commestibile e di potabile. La progettazione di lunghissimi viaggi pieni di incognite e di rischi con natanti che consentivano il trasporto nelle cambuse di provviste in misura molto limitata, doveva contenere indicazioni sulle risorse alimentari lungo il tragitto che potevano esser palesate attraverso la toponomastica.
La mediazione etrusca da *Aigílion a *Eigiliun, è rassicurante: in acque etrusche un toponimo greco in forma del tutto inalterata costituirebbe un’anomalia poco verosimile.
L’antica denominazione greca di Ischia invece, (o forse dell’intero piccolo arcipelago che comprende anche Procida, Vivara e i duomi vulcanici che circondano l’isola maggiore, visti come isolotti), va riferita a un animale, la scimmia, che certamente non appartiene alla fauna locale, né a quella commestibile; tantomeno esistono reperti osteologici riferibili ad animali importati nell’isola. Tra i reperti archeologici, invece, l’immagine dipinta su un frammento di cratere locale potrebbe essere interpretata come un ritratto di scimmia[31].
Il toponimo Pithekoussa/ai, tramandato sia al singolare che al plurale, infatti, richiama píthekos che significa “scimmia”, parola non presente in Omero, ma solo dal VII secolo a. C. nella lirica giambica[32]. Che cosa può significare il toponimo dal suffisso in –ss, residuo toponomastico testimone di antichissime rotte percorse da naviganti di provenienza microasiatica e minoica[33]? Isola delle scimmie, popolata da scimmie, scimmiapoli, come comunemente viene tradotto[34]? O forse “scimmiosa”, tanto per usare un vocabolo che non esiste, ma che potrebbe significare: “a forma di scimmia”? Per giustificare la presenza delle scimmie gli antichi ricorsero al mito[35], alla traduzione di un vocabolo etrusco[36], oppure negarono che Pithekoussa/ai potesse derivare da píthekos, cioè che avesse a che fare con le scimmie[37]. I moderni invece ribattezzarono l’isola Pithecusae, che in realtà è una trascrizione latina (anacronistica nel XX e XXI secolo), non un toponimo[38] e si ingegnarono a formulare le più disparate ipotesi[39] per spiegare la presenza di scimmie vere e proprie[40] oppure di individui scimmieschi del tutto in sintonia con quelli caprini dell’immaginario greco[41].
Ma se nel passaggio di un toponimo da una lingua all’altra ed eventualmente a una terza, le capre si trasformano in gigli, per Pithekoussai tutto è possibile, anche un toponimo di origine non ellenica[42] recepito a modo loro dai pionieri greci che nel secolo VIII a.C. raggiunsero Ischia e vi si insediarono o addirittura dai primi esploratori micenei che lasciarono traccia del loro passaggio a Vivara[43].
Nel nostro contesto va rilevato che se si accetta una mediazione etrusca (arimoi=scimmie in etrusco), avremmo una curiosa reciprocità con la trasformazione da greco a etrusco dell’antico toponimo gigliese e da etrusco a greco per quello ischitano. Ma sono osservazioni che lasciano il tempo che trovano; meglio fermarsi qui, “lasciando, per amore di pace, l’etimologia nella sua comoda ambiguità”, come saggiamente scrisse Amedeo Maiuri[44], “ché a prender partito in questi caso c’è da compromettere tutta un’onesta vita di studi”.
Eppure a me è capitato di rintracciare nei paraggi di Ischia qualcosa di scimmiesco: i contorni di Procida, gli stessi che oggi talvolta qualcuno assimila a quelli del logo dell’Agip/ENI, il cane a sei zampe.
In particolare Vivara appare molto simile al codone ricurvo di un babbuino, le Punte Solchiaro, di Pizzaco e di Terra Murata alle zampe e la zona tra Pozzovecchio e lo Scoglio del Cannone alla testa cinocefala di una scimmia. Proprio la coda è la caratteristica anatomica che più differenzia la scimmia dall’uomo, tant’è che Candilo e Atlante, “maligni caudati folletti”, come li chiama Maiuri[45], trasformati da Zeus in esseri scimmieschi e confinati a Ischia per punire le loro malefatte[46], si chiamarono Kèrkopes, presero nome cioè dalla coda, in greco kérkos.
Se qualcuno obietta che nel secolo VIII a. C. non esistevano immagini satellitari o fotografie aeree, dovrà spiegare perché i greci chiamarono la Sicilia Trinakria (isola triangolare, dalle tre punte), la Sardegna Ichnousa (impronta di un piede), Stromboli Strongyle (rotonda), Lampedusa Lopadousa (a forma di patella). Evidentemente gli esploratori, i pionieri del mare, ricavavano la sagoma di un’isola dalla circumnavigazione e la usavano come elemento caratterizzante che talvolta ebbe il suo esito nella toponomastica. In generale i naviganti che si accostavano per la prima volta a un’isola (o anche soltanto a una zona costiera)[47] di cui non conoscevano il nome, la individuavano per alcune caratteristiche geofisiche e ambientali visibili dal mare: la forma, il perimetro, la vegetazione, ecc..
Gli antichi pionieri greci potrebbero aver chiamato Pithekoussa, “scimmiosa” Procida (con Vivara) e in un secondo momento aver trasferito il toponimo a tutto l’arcipelago e all’isola maggiore. Questo presuppone, naturalmente, per la sagoma di Procida/Vivara, all’epoca delle prime ricognizioni, un aspetto non molto diverso dall’attuale[48].
Insomma, se con la mente, di fronte al mistero insoluto delle scimmie di Ischia, condivido le sagge parole di Maiuri, quando da Piano Liguori o da Ischia Ponte, osservo l’incantevole panorama di Vivara e Procida, mi concedo di fantasticare di un timoniere che, alla guida di una nave greca proveniente da Capri, raggiunta Vivara, esclamò:
- Guarda, la coda di una scimmia!
- E’ un cratere vulcanico – rispose il capitano - vai a dritta, sottocosta. Esploriamola tutta.
Circumnavigarono l’isola e scoprirono le zampe e la testa della scimmia, poi si diressero verso la verdeggiante terra vicina. Si imbatterono prima in un isolotto circolare (che oggi è sede del Castello Aragonese) a pochissima distanza dall’isola maggiore. Chiamarono quindi tutto l’arcipelago Pithekoussai e Pithekoussa la più grande delle isole.
Quando la storia tace, non risponde, oppure è troppo ingarbugliata, l’immaginazione può contribuire a superare con racconti fantastici dilemmi irrisolti, a condizione di rimanere con i piedi per terra e di preferire il buon senso ai castelli in aria.
Diversamente, le ipotesi si trasformano in proiezioni del presente sul passato oppure in vere e proprie mistificazioni.
5. Greci in acque etrusche?
Aigílion: caprino dunque il Giglio, per bocca dei Greci. Di quali Greci? Quando? Esploratori commercianti provenienti dall’Egeo (Aigéus: anche loro un po’ caprini?) nell’Età del Bronzo, Eubei o altri Elleni colonizzatori e mediatori? Naviganti di passaggio[49]? O forse Etruschi ellenizzati?
A Ischia gli scavi e le ricerche di Giorgio Buchner hanno fugato ogni dubbio sull’epoca del primo insediamento greco: secondo quarto del secolo VIII a. C.
Nella Valle di S. Montano a Lacco Ameno la necropoli e almeno altri otto siti archeologici[50] sparsi su tutto il territorio evidenziano la presenza di Greci sull’isola e la continuità della loro cultura a partire dal secolo VIII a. C. fino almeno al primo secolo d. C..
Al Giglio, il cui più antico toponimo è di origine greca, quale altre tracce hanno lasciato gli Elleni?
Sul territorio nessuna, rivela l’Atlante archeologico della Toscana[51]. Solo nella vicina Giannutri è stato rinvenuto un gruppo di oggetti, tra cui 5 bombyloi (vasetti per profumi) protocorinzi[52], senza traccia di sepolture e di edifici.
Certamente per la granitica e tetragona isola toscana non si può ipotizzare che, come a Ischia, fango, lava, materiale piroclastico, abbiano occultato eventuali vestigia di un passato greco.
Più verosimile è pensare che la permanenza di Greci siano stata temporanea e che le civiltà successive, a cominciare dagli Etruschi, ne abbiano oscurato la presenza.
Non riuscirono, invece, a cancellarne le tracce, incredibilmente, gli abissi del mare e gli abusi dei predatori. Anzi, la memoria storica recuperata dal sito archeologico sottomarino al largo della baia del Campese è di straordinaria importanza e potrebbe essere rilevante anche per la storia di Ischia.
Straordinaria è anche la storia del recupero del relitto della nave naufragata presso l’isola del Giglio nel VI secolo a.C., tanto straordinaria che merita di essere raccontata dall’inizio e nei particolari.
Merita di essere ricordata non soltanto per chi ama le ricostruzioni storiche, l’archeologia, le attività subacquee, le isole e le avventure, ma perché è una storia esemplare per i nostri tempi, critici, per usare un eufemismo, per quanto riguarda il recupero, la tutela e la valorizzazione dei beni archeologici.
A essa sarà dedicata la terza parte della mia esposizione, che riguarda il recupero della nave “infame” del Giglio e Punta Chiarito. Farà seguito una quarta e ultima parte su avvenimenti storici di rilievo nelle storie “parallele” dell’Isola d’Ischia e dell’Isola del Giglio nei secoli XV e XVI della nostra era.
[1] de Fabrizio, p. 129.
[2] de Fabrizio, p. 102 segg.
[3] D’Ascia, p. 397
[4] Archeologia della vite e del vino in Etruria, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Scansano 9-10 settembre 2005, a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, Siena 2007. Il testo è pubblicato interamente in internet: www.comune.scansano.gr.it/files/vinum/pdf
[5] Ciampoltrini, Rendini, p. 177.
[6] Rendini, p. 327.
[7]Brun, pp. 55 e 56.
[10] Coubray, p. 208: “Il pourrait s’agir de vignoble local avec les caractères de la vigne sauvage”.
[11] Gialanella, p. 177 e De Caro, Gialanella, p. 345.
[12] Gialanella, pp. 170 e 172 fig. 4.
[13] Noti a Omero, Iliade XVIII, 561-564 (scudo di Achille).
[14] Cantarelli, De Francesco, pp. 39-42. P. 42, n. 21: “Anche l’unico vinacciolo individuato è estremamente poco significativo”. Secondo le autrici (p. 41) proprio l’esame paleobotanico dei reperti vegetali provenienti da Punta Chiarito evidenzia che “l’area retrostante la Punta Chiarito costituiva un ambiente naturale che possiamo ritenere esser stato lasciato sostanzialmente integro da coloro che edificarono queste strutture”.
[15] Coubray, p. 207. I reperti botanici di cariossidi (semi) o endocarpi (noccioli) alimentari sono: hordeum vulgare (orzo/5), triticum aestivum (grano tenero/2), triticum dicoccum (farro/1), vitis vinifera (vite europea/1), olea europaea (olivo/2), pirus amygdaliformis (pero mandolino/ipotetico).
[16] Forni a p.75 osserva che la diffusione di semi e piante avviene non solo con prodotti finiti e tecniche colturali, ma anche “a livello biologico inconscio: i cibi principali dei viaggiatori e dei mercanti erano l’uva essiccata e le olive in salamoia; i vinaccioli e i noccioli inevitabilmente si disseminavano anche con le feci negli approdi… ”. Lo stesso vale ovviamente per i residenti nell’insediamento.
[17] “Il Golfo-Quotidiano di Ischia e Procida”, 23.03.2004, Archivio informatico: http://www.ilgolfo.it/archivio.phtml
[18] “Il Golfo-Quotidiano di Ischia e Procida”, 20.08.2008, Archivio informatico: http://www.ilgolfo.it/archivio.phtml
[19] Gialanella, pp. 169-204.
[20] Cantarelli, De Francesco, pp. 37-54.
[21] Alecu 2004, pp. 117-150, Alecu 2005, pp. 3-20.
[22] Alecu 2004, p. 120. La zona costiera meridionale è stata interessata, in epoca preromana da un sollevamento bradisismico tra i 15 e i 30 metri. Per il Chiarito viene quantificato in circa 20 metri (Italiano, p. 167).
[23] Ridgway, pp. 104-109; Buchner 2004, pp. 16, 43, s.; Corretti, p. 344, s..
[24] Nizzo, p. 215 ritiene che la funzione di scalo per Punta Chiarito sia ipotizzabile solo “in circostanze puramente occasionali” e che dunque l’insediamento non debba essere valutato nel contesto dei circuiti commerciali del VI s. a. C.
[25] Vallariello, p. 30, s.
[26] Mela, 2,7; Plin., NH 3, 81; 6, 644; Ces., Civ. 1, 34. CIL, XI 2643.
[27] Silvestri, p. 110, s..
[28] P. es.: Aigussa, Egeo, Egina, Egio, Egadi, Capraia, Caprera, Capri, Caprarola, Capretta, ecc.
[29] Silvestri, p.109-122. Per quanto riguarda le divinità teriantropiche caprine, Pan, Satiri, Sileni, che frequentemente vengono raffigurati nell’atto di suonare il flauto, è di grande rilievo la loro valenza nel rappresentare gli istinti, gli impulsi sessuali, le pulsioni erotiche, ma anche la creatività che si esprime nella musica, nel canto e nella poesia. Non a caso appartengono a una stessa radice il greco trágos (capro), tragodós (cantore tragico, tragedia), tragodía (tragedia), tragikós (caprino/tragico), ecc..
[30] Furti (non pirateria) o episodi di caccia per fame o in mancanza di doni ospitali (o provviste) nell’Odissea: IX, 464-65; IX, 712; X. 154-180; XII 329-332 e 353-358.
[31] Fine VIII sec. a. C. da Mazzola (Lacco Ameno). Il cratere era firmato dal vasaio, v. n. 40.
[32] Archiloco, fr. 185I 3; Semonide, fr. 7. 71, 79; Ipponatte, 155a.
[33] Maddoli, p. 995.
[34] Ridgway, p. 50, s..
[35] I Cercopi Candilo e Atlante, secondo il mitografo Xenagora e il poeta Aischrion di Samo (Arpocrat, In dec. orat. p. 174, I 18; Svet. Blasf. 4.26; Eustatius, Comm. Hom. Od II p. 202 21; Suda K 405,6).
[36] Tramite la denominazione poetica (Plinio, NH III 82 4) di Ischia “Inarime” che significherebbe “tra le scimmie”, perché in etrusco arimoi significava “scimmie”, Strabo, Geo 13,4.6.4; Hesychios, Lex. s.v. arimos; Dem., Gramm Fr.3913e 16, Servius, Aen., IX 712, 3-14.
[37] Plinio, NH III 82, 2-3, spiega l’etimologia del toponimo come derivante non da píthekos, ma da pithos (giara), per la produzione di terrecotte sull’isola.
[38] Sono solo sei negli autori latini (che di regola chiamano Ischia Aenaria) le trascrizioni del toponimo greco: Liv. VIII. 22.6; Ov. Met. XIV. 90; Plin. NH II. 203; NH III. 82. 2; Mela. 2. 120.1;124.4; Serv. Verg. Aen. IX.712.10. Molte più numerose sono le varianti ortografiche del latino Pithecusa/ae, in un’epoca, la nostra, in cui il latino è conosciuto a buoni livelli in sedi accademiche ed ecclesiastiche, ma non a livello comunicativo, per cui la denominazione Pithecusa/ae viene recepita come esotismo, poco comprensibile e soggetto a continue storpiature ortografiche.
[39]Il toponimo potrebbe essere la forma ellenizzata di un toponimo indigeno preistorico o protostorico riferito all’isola o all’arcipelago (Ridgway, p. 50, s.), oppure frutto dell’immaginario greco d’oltremare che descriveva in racconti e in immagini figurate della pittura vascolare personaggi teriantropici caudati e scimmieschi, satiri-scimmie, che popolano lontane isole (Torelli, pp.122-125). Certamente gli indigeni delle culture italiche protostoriche che vivevano di pastorizia, magari coperti di pelli di animali, che “non hanno assemblee di consiglio, non leggi, ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime in grotte profonde” (Hom., Od. IX 113), senza praticare l’agricoltura, né la navigazione, possono essersi trasformati nell’immaginario dei raffinati Greci provenienti dall’Oriente in figuri animaleschi.
[40] Peruzzi, p.115-126 e Gras, pp. 127-131, favorevoli all’ipotesi dell’effettiva presenza di scimmie tramite i circuiti marittimi e commerciali dei Greci lungo le coste settentrionali dell’Africa (Tunisia, Tabarka).
[41] Torelli, p.124.
[42] Non solo indigena, ma anche fenicia o etrusca (v. n. 33, n. 34 e n. 36).
[43] Vagnetti, p.141, n.15. A Ischia (Castiglione) furono rinvenuti da G. Buchner tre frammenti di ceramica micenea (1425-1300 ca. a.C.): Gialanella in Buchner, Gialanella, p. 31-34. Anche a una piccola scure bronzea esposta nella sala I, vetr. 2, del Museo Archeologico di Pithecusae viene attribuita la provenienza micenea.
[44] Maiuri, p.45.
[45] Maiuri, l. cit..
[46] Cfr. n. 35.
[47] P. es. il toponimo molto diffuso (Creta, Peloponneso, Cipro, Sicilia) Drepanon o Drepana/e (Trapani in Sicilia) che significa “a forma di falce”.
[48] Le trasformazioni del territorio dopo l’epoca greca e romana non riguardano il profilo costiero di Vivara/Procida, a parte l’erosione marina, anche se vi sono stati movimenti di emersione e sommersione che hanno inciso sul livello del mare. La falesia che congiungeva Vivara a Procida esisteva ancora in età romana. Lo sprofondamento della costa fino a 9,5 m nei pressi di Punta Mezzogiorno, documentato da reperti di età egeo - micenea, ha probabilmente origine vulcano-tettonica piuttosto che bradisismica e risale a molti secoli prima dell’arrivo degli esploratori greci che si stabilirono a Ischia nel secolo VIII a. C..
(http://www.isoladivivara.it/CENTR/geol/geoviv.htlm).
[49] Alecu 2011, p. 23, n. 12.
[50] 1. Scarico dell’Acropoli del Monte di Vico, 2. Mazzola, 3. Pastola, 4. Scavi di S. Restituta, 5. S. Alessandro, 6. Punta Chiarito, 7. S. Pietro, 8. Nitrodi, inoltre ritrovamenti sporadici.
[51] Cappelletti, pp. 587-590.
[52] Cappelletti, 7. 3, p. 590.
L’articolo è stato pubblicato in La Rassegna d’Ischia 2/2011, pp. 43-50.
La parte I è stata pubblicata in La Rassegna d’Ischia 1/2011, pp. 21-24.
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