6.1 Il racconto di una storia incompiuta
La storia della nave “infame[1]” ha inizio un giorno ignoto di un anno sconosciuto di molti secoli fa.
Il racconto ha il suo incipit in un preciso istante di esattamente trenta anni fa. Ha una conclusione, ma la parola FINE deve essere ancora scritta.
L’attimo iniziale scatta quando un giovane proveniente da Oxford, il tempio degli studi classici, osserva a casa di Alexander McKee[2], esploratore subacqueo e prolifico scrittore di storia nautica, alcuni cocci di chiara origine sottomarina e riconosce l’ansa di un’anfora etrusca[3].
I frammenti di anfore, una macedonia archeologica di epoche diverse, sono souvenir di immersioni lontane nel tempo: “early ’60, Giglio Island, Tuscany, Italy”.
McKee aveva raccontato le sue avventure al Giglio in un libro (1969) dal titolo molto intrigante: History under the Sea (sotto il mare la storia), ma non ricorda i particolari dell’unica immersione effettuata sul relitto da cui proveniva il frammento di anfora etrusca. A 50 metri di profondità aveva subito un incidente: l’insidiosa ebbrezza degli alti fondali[4]. Il sommozzatore perde lucidità al punto di, in stato confusionale, allontanare il boccaglio o addirittura di perdere conoscenza. Ai compagni d’immersione non resta altro che afferrarlo e portarlo al di sopra della soglia del rischio e poi in superficie sorvegliandone la respirazione e le soste di decompressione.
Mensun Bound, il giovane di Oxford, non è soltanto un esperto subacqueo: è un archeologo. L’ipotesi che i reperti trafugati al Giglio possano provenire da una nave etrusca è tanto avvincente che vuole saperne di più. Da un naufragio si sarebbero potute ricavare preziose informazioni sull’identità dei Tirreni, dei misteriosi Etruschi signori del mare, sulle relazioni commerciali tra i popoli che incrociavano le rotte tirreniche e mediterranee, sulle loro culture e, non da ultimo, sulle tecniche di navigazione e di costruzione navale.
McKee indirizza il suo interlocutore verso Reginald Vallintine, detto Reg, un espertissimo istruttore londinese che all’inizio degli anni ’60 guidava la barca d’appoggio dei subacquei. Era stato lui a scoprire il relitto[5]: era dunque il primo e principale testimone in grado di fornire informazioni e localizzare il sito. Nel ’62 aveva pubblicato un articolo in una rivista specializzata[6] per raccontare delle sue immersioni e della sua (tardiva) intenzione di promuovere l’istituzione di un museo al Giglio. Mensun lo rintraccia nella sua casa di Londra.
L’istruttore subacqueo fa emergere i suoi ricordi: 2 agosto 1961, Nord Ovest dell’Isola del Giglio, una secca a 300 metri dalla costa, una grotta sottomarina ai piedi di una scogliera sommersa, una parete declinante verso il fondale fino a 45/50 metri di profondità. Scoperta casuale, un carico disperso, misto: frammenti, ma anche oggetti diversi, integri, anfore e piccole ceramiche. Lo scafo? No, non ricorda lo scafo, né parti del fasciame. Vallintine cede al fervore scientifico che anima il suo interlocutore e mostra a Bound tre vecchie fotografie[7]. Nella prima un giovanotto in costume da bagno, senza attrezzatura sub, si fa ritrarre seduto sul parapetto di una barca circondato dalle sue conquiste: due anfore e un bacile perfettamente integri, inoltre qualche coccio. Sono tutti suoi quei trofei? Li ha pescati lui, il miles gloriosus, quei souvenir strepitosi?
- Etrusca l’anfora in bilico sul ginocchio sinistro, - pensa Mensun - punica quella ai suoi piedi -.
Nella seconda foto una lady dal sorriso enigmatico, in barca vestita con un abituccio anni ’60[8], esibisce tra le unghie laccate due kantharoi di bucchero, eleganti calici dalle anse oblunghe, molto apprezzati da Etruschi, Greci, tombaroli e relittari. Si compiace la bionda gioconda del bottino dei cacciatori di anfore. La terza foto mostra le prede senza i predatori: il collo di un’anfora ansata, un grande cerchio metallico e, in primo piano, una scodella decorata da concrezioni marine. L’orlo è ripiegato all’interno: un’ingegnosa trovata per stabilizzarne il contenuto. Le piccole anse a rocchetto sono tre, scanalate e forate per inserire degli anelli, forse per appendere il contenitore. Un kothon, è questa la definizione esatta e greca dell’oggetto che attira in modo particolare l’attenzione dell’archeologo. Il reperto, d’incerta destinazione d’uso, ma di sicura provenienza e datazione, rivestirà un ruolo importante nelle ricerche di Bound.
Determinante per rintracciare il fondale su cui era disperso il carico sarà un particolare che Reg ricorda molto chiaramente: dei dischi metallici, grandi. Sembravano scudi, ma non lo erano, troppo pesanti. Tanto pesanti (40 kg ciascuno) e ingombranti che non si prestavano a essere infilati in valigia per il volo di ritorno come si fa con tutti i souvenir che si rispettino. Reg ne aveva recuperati due e le aveva lasciati al Giglio prima di partire. Se ne sarebbe occupato in seguito, per il progettato museo. Altri dischi erano rimasti sul fondale, nascosti sotto la sabbia. – Bun (pizze, avremmo detto noi) ingots, lingotti nell’Etruria metallifera - pensa Mensun - e questo accresce il suo interesse. Quando Reg gli consegna un taccuino sdrucito su cui, giorno per giorno, aveva annotato date, tempi d’immersione e nomi dei subacquei[9], leggendo accanto a un disegnino “piccolo come un’unghia”:
HELMET v.[ery] beautyful bronze? with carvings
ELMO (maiuscolo e sottolineato) bellissimo bronzo? con incisioni
il giovane archeologo prende una decisione: andrà al Giglio a cercare l’area del saccheggio portandosi Reg e un metal detector. Bound è consapevole di quanto sia ardua l’impresa: cercare un sito sottomarino saccheggiato vent’anni prima, significa correre il rischio non tanto di non trovarlo, ma di trovarlo completamente ripulito, senza neanche le “pizze”. Quell’elmo però, greco - corinzio, etrusco - corinzio, bronzo o rame che sia, deve essere ritrovato. L’estate ormai volge al termine. In attesa della stagione propizia per le immersioni non c’è tempo da perdere.
6.2 Il furto
Very beautyful, aveva annotato Reg. “La prova scritta del furto di un elmo greco”, scrisse Viviano Domenici titolando il suo articolo[10] per l’inaugurazione della mostra sul relitto allestita nel 1994 a Firenze nel Museo Etrusco. Tra i reperti esposti mancava il “pezzo forte”, lo strepitoso elmo del Giglio.
- Ma com’è potuto accadere? Com’è possibile che un gruppo di turisti si porti via dei beni archeologici pescandoli da un sito a 300 metri dalla costa di un’isola della civilissima Toscana? Da una profondità che, anche per un sommozzatore esperto, non è una passeggiata? - Si saranno chiesti i visitatori della mostra e si chiede chiunque, non solo il subacqueo.
E’ successo, purtroppo, però mezzo secolo fa. Negli anni ’50 e ’60 l’archeologia sottomarina era agli albori: in Italia durante i primi scavi istituzionali del Centro sperimentale di Albenga fondato dal Prof. Lamboglia[11], i relitti furono letteralmente saccheggiati da predatori clandestini nel corso degli stessi interventi archeologici[12]. In Toscana scavi autorizzati furono eseguiti già nel 1957 e ‘67 per identificare il porto etrusco di Populonia, ma nel 1972, mentre venivano analizzati ai fini della datazione campioni di legname prelevato da un relitto etrusco, il relitto sparì[13].
Dopo la realizzazione del primo autorespiratore (1943), l’attrezzatura, le tecniche d’immersione e la diffusione di nuovi strumenti fecero tali progressi che le attività subacquee da rigorosamente professionali si trasformarono in sport alla portata di masse di subacquei pronti a scandagliare i fondali per ammirare le meraviglie del mondo sommerso ma anche per praticare un esercizio molto particolare: la caccia all’anfora. L’antica consuetudine mediterranea[14] che attribuiva la proprietà di un relitto a chi se ne fosse impadronito per primo, acquistò nuova vitalità. Chi cerca trova, sentenzia un antico detto popolare; acchiappa e scappa è l’integrazione dei predatori subacquei.
Le normative nazionali in materia di beni sottomarini esistono dal 1939[15], la Convenzione dell’UNESCO sul divieto e prevenzione dell’esportazione illegale dal 1970, sulla tutela del patrimonio culturale subacqueo soltanto dal 2001[16].
All’inizio degli anni ’60 in Italia tra i subacquei non professionisti erano ancora relativamente poco diffusi strumenti tecnici tali da permettere immersioni a profondità superiori ai 42 metri e di durata tale da consentire non solo l’esplorazione, ma anche il recupero di oggetti di peso e dimensioni considerevoli.
La vigilanza di Guardia Costiera, Carabinieri e Finanza non era sufficiente a contrastare gli interventi di predatori pronti ad agire anche di notte. Negli stessi anni, l’Isola del Giglio era frequentata da subacquei, molti stranieri, soprattutto inglesi e tedeschi, ben attrezzati ed evidentemente in grado di accedere a fondali situati a livelli che superano quelli consentiti dai brevetti sportivi. Per quanto riguarda i beni culturali sottomarini, molte località balneari pagarono le conseguenze dello sviluppo repentino del turismo di massa.
6.3 Il progetto Giglio
Mensun Bound, archeologo e sommozzatore, è un uomo di mare. Nato a Port Stanley nelle isole Falkland da famiglia islandese, è un isolano cosmopolita, erede dell’eccellente tradizione delle marinerie britanniche. Cresciuto in Uruguay, fa la sua gavetta nella sala macchine di una vecchia nave a vapore sulle rotte dell’Atlantico Meridionale. Dal ‘72 si trasferisce a New York dove studia alla Rutgers University e lavora al Metropolitan Museum of Art. Nel ’79, infine, approda a Oxford occupandosi di storia antica e di archeologia classica, in particolare di ceramica greca. Collabora in Turchia e in Francia alle ricerche di George F. Brass, il primo archeologo ad aver diretto personalmente in acqua, da subacqueo, scavi sottomarini[17].
Il recupero del relitto del Giglio è una grande sfida. Prima di scandagliare i fondali della secca dei Pignocchi, nella baia di Giglio Campese, Bound si dedica a raccogliere dati utili a elaborare un progetto credibile, complesso, scientifico e rigorosamente professionale, sia su base teorica che operativa, con la legittimazione e la cooperazione delle autorità competenti per l’archeologia nell’Arcipelago Toscano.
6.4 Prima dello scavo
Sir John Boardman, professore di Arte classica e Archeologia al Lincoln College di Oxford, uno dei maggiori esperti al mondo di ceramica greca, dopo aver visto le foto di Vallintine, dà il suo benestare al “progetto Giglio” e lo promuove. Seguono a ruota l’Università di Oxford, la Oxford Society, la Word Ship Trust, la British Academy in Rome e una serie di sostenitori pubblici e privati che si allungherà come la scia di un motoscafo. Dopo essersi consultato con il prof. Gianfrotta, grande conoscitore in Italia dell’archeologia sottomarina, Bound compie tutti i passi necessari presso le autorità competenti per ottenere l’autorizzazione a procedere alla ricerca del sito e allo scavo. Contemporaneamente però si dedica a un’attività che l’immaginario comune considera squisitamente britannica: si trasforma in detective, fiuto da segugio e tenacia da mastino. Una delle priorità del “progetto Giglio”, infatti,è rintracciare, partendo dal diario di bordo di Vallintine, i sub che avevano partecipato alle immersioni del 1961 e 1962 e gli oggetti che erano stati asportati. Insieme alla compagna Joanna Yellowlees, Bound percorre mezza Europa in cerca dei reperti del Giglio. Lo fa in forma riservata e molto diplomatica, ma incontra non pochi ostacoli. Dopo tanti anni, chi è morto, chi si è trasferito, chi ha cambiato nome. La signora inglese in possesso del kothon da Bogey Kane è diventata Yasmine Antonini. Sposata con un italiano, vive a Monte Carlo. Mensun e Joanna la rintracciano e riescono a esaminare con cura il reperto sul quale sono visibili tracce di pittura. Il kothon è corinzio e datato con certezza a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C.[18]. Questa datazione certifica il naufragio come posteriore al 600 a.C., ma non di molto.
Una signora londinese aveva ereditato da un sub una delle anfore asportate dal relitto. Che sorpresa, nel centro di Londra! L’anfora perfettamente integra non è etrusca, ma greco – orientale: proviene da Samo (Asia Minore). Ora Bound, oltre a precisi riferimenti cronologici, ha individuato quattro provenienze diverse per il carico della nave: punico - fenicia, greco - corinzia, greco - orientale ed etrusca. Nel 1983 Bound e Vallintine scrivono insieme un articolo sui reperti asportati nel ’61 dei quali sono disponibili le fotografie e lo pubblicano in una rivista internazionale[19] ipotizzando l’origine etrusca del relitto del Giglio. Il loro obiettivo è mobilitare il più possibile sponsor e collaboratori. Magari anche qualche “pentito”.
Le sorprese non finiscono mai: dopo che la BBC aveva trasmesso (1983 e ‘84) un documentario sul progetto Giglio, racconta Bound[20], gli si presenta una certa Beryl Boomshoof. Nella borsetta ha “il pomo di una porta etrusca”, souvenir delle immersioni al Giglio, 1961. Si tratta di un aryballos, un piccolo flacone globulare
usato per contenere oli aromatici per la cura del corpo. Proviene da Sparta e la datazione coincide con quella degli altri reperti. E’ questa la sola restituzione spontanea di cui Bound riferisce nei suoi scritti. L’episodio evidenzia un particolare interessante: il coinvolgimento di un largo pubblico tramite i media. L’impresa degli archeologi/sommozzatori diventa l’impresa di molti, nel senso che, pur essendo di alta e duplice specializzazione, archeo e sub, diviene collettiva, coinvolgendo non solo gli addetti ai lavori e i Gigliesi, ma anche un vasto pubblico, grazie alla stampa di divulgazione (giornali e riviste, anche specializzate), TV e radio[21], che si occuparono dell’argomento che, a giudicare dalla quantità di libri su esplorazioni subacquee pubblicati a partire dagli anni ’60[22], interessa molto i lettori d’Oltremanica e anglofoni in generale. Nell’UK l’impresa del Giglio, dopo la sua conclusione, è raccontata persino in forma di giornalino illustrato[23].
6.5 La riscoperta dell’area del naufragio
Al termine degli scavi, dopo la pubblicazione di una prima relazione scientifica (1985)[24], lo stesso Bound racconta le sue esperienze sulla stampa divulgativa. La missione stessa però è riservata agli addetti ai lavori. Nel settembre 1982 un’equipe di ricercatori parte da Oxford per l’Isola del Giglio.Sono pochi, esperti e autorizzati a localizzare il sito, a procedere alla sua ricognizione con campionatura, non a cominciare lo scavo.
La secca è ancora lì, la parete scogliosa pure. La sommità dello scoglio si trova 2-3 m sotto il pelo dell’acqua. Ecco quanto si è alzato il livello del Tirreno dall’antichità[25]: lo scoglio un tempo era in superficie e la nave probabilmente lo incontrò al buio, spinta dalla furia dei venti. Sono frequenti e terrificanti le improvvise tempeste alla fine dell’estate in quelle acque: nel 1983 un natante degli esploratori di Oxford affonda per il maltempo.
La grotta sottomarina menzionata da Reg viene presto individuata. Ai piedi della scogliera, il fondale a 45/50 m è raggiunto senza difficoltà. Dopo qualche giorno, alcuni sub della spedizione raccolgono dei frammenti di anfore compatibili con anfore etrusche. E’ un segnale importante: potrebbero essere le briciole lasciate dai vandali. Il giorno dopo però i sommozzatori che danno loro il cambio non riescono a identificare la zona. Non è facile orientarsi nell’oscurità e nella vastità degli abissi; con questo dato di fatto bisogna sempre fare i conti. Si decide allora di affidarsi agli strumenti di rilevazione dei metalli. Dopo qualche giorno di ricerche, due sub riemergono con una magnifica notizia: il metal detector ha fatto sentire la sua voce. Bound s’immerge con David Corps; al segnale del rilevatore elettromagnetico scandagliano la zona e scoprono una concrezione ferrosa da cui sporge un orecchio. Un’ansa di anfora etrusca, per essere più precisi, conficcata nel metallo, identica a quella che Mensun aveva visto a casa di McKee il fatidico giorno del 1981 in cui ha inizio questo racconto. Come dire, trovato l’altro orecchio, ecco finalmente riscoperta l’area del naufragio.
Chissà chi ebbe per primo l’idea di umanizzare le anfore e altri vasi attribuendo loro termini pertinenti alla figura umana: orecchio, collo, bocca, labbro, spalla, pancia, piede, ecc.. Le orecchie forse sono l’attributo più connotante: piccole e tonde come quelle di un panda su anfore punico-fenicie, lunghe e affusolate come braccia su anfore romane.
Nello stesso giorno e in quelli seguenti i sommozzatori della spedizione di Oxford recuperano numerosi (49) frammenti di ceramica corinzia, laconica o altro, con tracce di pittura. Anche oggetti quasi integri: un aryballos corinzio, un boccale laconico, una coppa ionica, l’ansa di un kantharos di bucchero, tre lucerne, due lingotti di piombo, ovali come pani, poi il tappo di legno di un’anfora e piccoli cilindri di piombo, pesi per reti da pesca[26]. Sono ora sei i luoghi di provenienza del carico della nave arcaica. Vengono individuate anche parti dello scafo e frammenti del fasciame. Sono i resti del saccheggio, oggetti ignorati, non visti o forse ‘smarriti’ dai predatori sempre in agguato. La localizzazione dell’area deve rimanere assolutamente segreta. Intanto tutti i reperti vengono fotografati, catalogati ed esaminati per preparare la stagione successiva, la prima campagna sistematica di scavo vero e proprio.
Nel 1983 sono più di cento i membri del team che arriva al Giglio da Oxford, questa volta all’inizio dell’estate.
6.6 Lo scavo
Perché così numerosi? Tra loro ci sono operatori “di mare”, ma anche “di terra”: archeologi, restauratori, disegnatori, fotografi, ecc., che allestiscono la loro base con alloggi e laboratori in due vecchi edifici messi a disposizione dalle autorità dell’isola. Alla profondità di 45/50 metri il ricambio dei sommozzatori deve essere frequente: l’intervento con l’autorespiratore non può protrarsi oltre i 17-18 minuti[27]. Le soste in acqua per la decompressione sono lunghe e anche in superficie, tra un’immersione e l’altra, sono necessarie delle pause. Il ricambio dei sommozzatori deve essere continuo.
Come si procede in uno scavo sottomarino? Sulle superfici da cui si vogliono rimuovere i sedimenti (sabbia, fango o piccoli detriti) si opera la quadrettatura del sito: si sovrappone una griglia che identifica i segmenti su cui operare. Gli strati che coprono i reperti si aspirano con uno strumento ad aria compressa, la sorbona ad aria, un tubo semirigido al quale è affiancato un altro tubo (la lancia) da cui si immette aria. I sedimenti possono essere riversati a distanza in mare o in superficie.
La sorbona e la lancia ad acqua funzionano in modo analogo, ma molto più delicatamente. Bound sceglie questa soluzione, ma in alcuni casi sui sedimenti che coprono gli oggetti più fragili sarà necessario intervenire spostando i detriti manualmente con vari mezzi.
Per riportare in superficie i reperti più ingombranti o pesanti si fa uso di palloni aerostatici di sollevamento collegati con il reperto oppure con ceste o gabbie metalliche.
Nonostante tutta la prudenza e vari accorgimenti per depistare potenziali predatori, durante la prima campagna di scavo succede un fatto terribile.
A un intervistatore[28] che nel 2002 gli chiede quale sia stata la sua immersione più bella Mensun risponde:
- La riscoperta del relitto di una nave naufragata al Giglio, quando recuperai un aryballos corinzio -.
Non è poco: l’archeologo che dirige l’istituzione universitaria M.A.R.E. (Maritime Archaeological Research and Excavation) ha esplorato relitti in fondali di mezzo mondo. - E la più brutta? - Sempre al Giglio, il 24 giugno del 1983. Stavamo lavorando, mia moglie ed io, allo scavo di due aryballoi e ne avevamo individuato un terzo. Prima di risalire in superficie, li coprimmo con un po’ di sabbia. Era il 23 giugno. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornammo sul fondale per completare lo scavo e scattare delle fotografie. Dei piccoli vasi dipinti non c’era più traccia. Al loro posto una voragine, come dopo lo scoppio di una bomba. Qualcuno nella notte era intervenuto con una sorbona ad aria[29] e aveva provocato un disastro. Eravamo così sconvolti per la sorpresa e la rabbia che cominciammo a sbuffare come locomotive -.
Una situazione molto pericolosa a quella profondità, non controllare la respirazione. Si rischia di affannare, di risucchiare le bombole, riserva compresa, in tempi troppo brevi, si rischia il panico e di molto peggio. Mensun e Jo, collegati a una bombola d’emergenza, riescono a risalire in superficie.
- Guardai mia moglie negli occhi – racconta Mensun – il vetro della maschera era velato, bagnato all’interno. Non era un’infiltrazione, non era acqua di mare: erano lacrime -.
Nella voragine giacciono numerosi frammenti; alcuni sono ricomponibili. Appartengono a un cratere corinzio dipinto con figure di danzatori. Il capiente contenitore era usato per mescolare il vino con acqua o altro; i commensali vi attingevano per bere in coppe o boccali. Poteva aver fatto parte della merce trasportata dalla nave, ma anche esser stato usato dai naviganti. Probabilmente erano più di uno i crateri distrutti dai vandali. Un danno gravissimo. Il team di Oxford è costretto a prendere provvedimenti, oltre a quelli già in atto contro le incursioni dei “clandestini”. Nello specchio di mare prossimo all’area archeologica si istituiscono turni di vigilanza. I tempi e le modalità progettati per lo scavo devono esser modificati: bisogna assolutamente portare in superficie giorno per giorno quanto affiora dallo scavo, anche a costo di procedere con minore delicatezza nel liberare i reperti. Dopo la denuncia del furto degli aryballoi ai Carabinieri[30], due subacquei tedeschi vengono sorpresi con le mani nel sacco, denunciati per il furto di un’anfora romana e condannati a 3 mesi di reclusione. Oltre a quel brutto episodio del 24.06.83 però, nella stessa campagna di scavi, accade un meraviglioso imprevisto. Tra i giacimenti non asportati dai ladri, vengono rilevate delle masse amorfe, nerastre, di diversa estensione e spessore. Alla luce delle torce, negli abissi non è possibile individuare di cosa si tratti. Vengono asportate, condotte in superficie e depositate sulla spiaggia. Infocato dalla calura meridiana, il misterioso materiale rigido e inerte comincia non proprio a sciogliersi come neve al sole[31], ma a intenerirsi, per svelare un’anima generosa, ricca di contenuti, piccoli ma prodighi di grandi informazioni. Mai senza quell’inattaccabile guscio sarebbero sopravvissuti all’usura del tempo, degli agenti chimici e meccanici, all’impeto delle correnti e, nel caso specifico, alla rapacità dei saccheggiatori. La sostanza duttile, pastosa, che li aveva avvolti e, irrigidendosi, sigillati in un perfetto imballaggio era resina di pino[32]. L’umore vischioso e odoroso che trasuda dalla corteccia di alcune piante, in particolare delle Pinaceae, contenuto in almeno due anfore che si erano frantumate durante il naufragio, si era riversato sugli oggetti vicini o sottostanti. Forse a bordo c’era stato un incendio.
Per noi, abituati a individuare la presenza di resina di pino solo in alcuni prodotti farmaceutici e cosmetici e in pochissimi alimentari[33], non è facile immaginare quanta importanza rivestisse tale sostanza nell’antichità e quante fossero le sue applicazioni. Premesso che ben altra doveva essere la produzione di resina delle immense foreste che rivestivano zone del Mediterraneo oggi pressoché desertificate dal secolare, continuo disboscamento, non tanto per la combustione, quanto per costruire navi ed edifici[34], la resina del pino d’Aleppo veniva utilizzata per balsami e cosmetici, per aromatizzare e conservare il vino, come ancor oggi in Grecia nella preparazione del rinomato retsina, per impermeabilizzare recipienti, p. es. l’interno di manufatti di argilla porosa[35], per sigillare i tappi dei contenitori, per l’illuminazione (torce). La stessa e altre resine vegetali erano di fondamentale utilità anche per applicazioni in edilizia e in carpenteria navale che oggi sono affidate a materiali sintetici oppure a sostanze di origine minerale, come la pece derivata dal carbone fossile. La città greca di Colofone (oggi Turchia, tra Smirne ed Efeso) deve la sua fama e la sua fortuna economica alla produzione, dal VI secolo a.C., della resina ricavata dal Pinus palustris, nota come pece greca o colofonia, utilizzata, insieme alla cera, per l’impermeabilizzazione e il calafataggio dei natanti.
Che cosa conteneva lo scrigno naturale recuperato al Giglio? Come ogni tesoro che si rispetti, soldoni e preziosi. La moneta vera e propria, codificata dal conio, all’epoca del naufragio, secondo i luoghi, non esisteva ancora, era in gestazione, oppure neonata[36], ma la sostituzione, almeno in parte, del metallo alla pratica generica del baratto era corrente nel mondo mediterraneo già da secoli, anzi millenni, in forme diverse, ma manifestamente riconosciute e accettate. Dalla resina i restauratori di Oxford liberarono dei grumi di rame grezzo (con percentuali di ferro). Sommati ad altri rinvenuti in diverse aree del sito, sono in tutto 19, di varia misura e peso; con ogni probabilità furono usati come mezzo di pagamento premonetale[37]. La stessa funzione, ma con valore molto superiore, potrebbero aver avuto due frammenti di ambra grezza, anch’essa una resina, però fossile, che erano rimasti rinchiusi nel guscio sottomarino[38]. Non si può escludere che si trattasse di merce destinata alla lavorazione in gioielleria.
Un’antichissima forma di pagamento, anteriore al conio i cui inizi si collocano in Lidia, nella seconda metà del secolo VII a. C., era la cosiddetta “moneta utensile”[39]: spiedi, tripodi, lebeti, asce. Ampiamente documentata all’epoca del naufragio, era legata a pratiche sacrali e magiche, oltre che funzionali. Il sito subacqueo del Campese ha restituito alcune barre di ferro simili a spiedi[40], riunite in fasci e deformate in una concrezione metallica. Potrebbero essere dunque altri spiccioli, “contanti” dalla cassa di bordo.
Lo scrigno di resina conteneva anche oggetti in legno, preziosi non tanto per il materiale, quanto per le informazioni che ne derivano. Da associare alla contabilità è probabilmente una tavoletta (cm.17x11) di legno di bosso. Due fori su uno dei lati lunghi servivano a collegarla a una gemella formando un dittico richiudibile a libro. Era una tavola scrittoria; della cera che la ricopriva purtroppo non rimane traccia, quindi anche delle lettere che vi erano incise. Resta però un oggetto in legno che ha tutto l’aspetto di uno stilo (cm 25) pertinente al notes, al personal computer del navigante.
E’ sopravvissuta dunque al naufragio e alle peripezie della nave un’importante certezza: nel corso della sua sventurata impresa terminata all’inizio del secolo VI a.C. a Nord-Ovest del Giglio, il mercante che la gestiva o un suo segretario contabile usava la scrittura.
Gli altri reperti lignei sono frammenti cilindriciin legno di bosso; tranne uno, sono dotati di fori. Svuotati
della resina e restaurati, sono ricomponibili in modo da formare circa 8 canne di strumenti musicali a fiato[41].
Allo stesso contesto appartiene una nona canna integra, in osso.
Lo strumento era il diaulos, ad ancia doppia su due tubi divergenti, documentato in numerose pitture vascolari greche e, dal tardo VI secolo, anche in affreschi etruschi che raffigurano scene di simposio?
Gli strumenti, privi di custodia, appartenevano a musicanti di bordo? A un contesto simposiaco sono riferibili anche uno di quattro sostegni (zampe) di kline, un letto o confortevole lettiera su cui si adagiavano, spesso in coppia, i simposi asti; inoltre 4 astragali[42], dadi da gioco, abitualmente usati per sorteggiare il simposiarca.
Il legno della zampa di kline è finemente lavorato con intarsi metallici e d’avorio, come un coperchio pertinente a una scatoletta (pisside) cilindrica[43].Se a questi reperti associamo quelli ceramici propri del rituale potorio, sia quelli protetti dalla resina[44], sia quelli provenienti da altre aree[45], compresi i kantharoi[46], e il kothon che forse veniva usato per profumare l’ambiente, l’apparato per il simposio appare pressoché completo. E’ impossibile accertare se e dove l’equipaggio della nave mercantile ed eventualmente gli acquirenti vi si dedicassero; certo è che la nave e il suo impresario erano portatori di una cultura e di una società di cui il simposio era una significativa espressione se non, come scrisse Domenico Musti[47], specchio e metafora.
Tra gli oggetti ceramici trattenuti dalla resina, ci sono anche due aryballoi corinzi[48]. Aggiunti agli altri recuperati, compreso il “pomo di porta etrusca” e ai tre asportati o distrutti nella notte del 24 giugno 1983, portano ad almeno 34[49] il numero complessivo di quelli identificati da Bound. Unguenti aromatici dovevano contenere anche due lekythoi (flaconi) samie[50]. Considerando che il relitto era stato saccheggiato nel ’61, nel ‘62 e abbandonato per vent’anni, l’emporio galleggiante doveva trasportare un assortimento degno di una profumeria per varietà di contenitori e certo anche di contenuti, con articoli per tutti i gusti, dai più sobri ai più raffinati. Tralasciando, tra quelli restituiti dalla resina, alcuni piccoli reperti non identificati con certezza[51], è interessante osservare altri oggetti di genere diverso: molti pesi di piombo per reti e lenze, uno a disco di argilla, uno di pietra, un amo di bronzo e numerosi anelli di bronzo e piombo pertinenti a reti o vele[52]. Una delle attività esercitate dall’equipaggio era dunque la pesca. Nella resina rimasero imprigionate anche delle punte di freccia, alcune con tracce di legno negli incavi[53], che certamente non facevano parte della merce. Le navi mercantili, esposte ai rischi della pirateria, viaggiavano ben fornite di armi[54].
La nave trasportava, oltre a quello descritto da Vallintine nei suoi appunti, almeno un secondo elmo di qualità inferiore: tra le briciole lasciate dai razziatori, gli archeologi di Oxford trovarono un frammento di nasale (copertura per il naso).
6.7 L’elmo del Giglio
Nel taccuino di Reg è indicata chiaramente la data dell’immersione: 28 luglio. L’anno non può essere che il
1962, perché l’istruttore scrisse in diverse occasioni di aver visto per la prima volta il relitto il 2 agosto del 1961.
In corrispondenza della descrizione dell’elmo sono riportati i nomi dei sub protagonisti della vicenda: Reg, David, Gigi, Heinz, Franz (Munich). Tra i turisti che si immergevano al Giglio in quegli anni c’erano sommozzatori molto esperti di un Club di Monaco (McKee 85, p. 103). Heinz e Franz sono tedeschi. In un articolo pubblicato in una rivista tedesca, Bound riferisce di aver cercato l’elmo in America, Francia e Scozia e di averlo ritrovato infine in Germania[55], senza altri particolari. In Archeologia Viva[56] lo studioso di Oxford aveva raccontato di aver contattato a Monaco due sub tedeschi di nome Hans (?) che dicevano di non saper nulla dell’elmo, poi di aver esteso le ricerche in Francia, infine di aver incontrato al Giglio un subacqueo tedesco che ricordava il ritrovamento e l’identità del connazionale che aveva prelevato il reperto. McKee[57] rivela il nome di questo informatore. Si chiama Heinz (da non confondere con un altro sub tedesco dallo stesso nome, noto e malfamato cacciatore di anfore al Giglio). Heinz è facilmente identificabile per un particolare menzionato sia da Bound, sia dallo stesso McKee: aveva subito l’amputazione delle gambe in seguito a un grave incidente e ritiene possibile che il sub che si era appropriato dell’elmo fosse un bavarese che si era trasferito ad Amburgo. Resta dunque da cercare nella città anseatica Franz di Monaco (o del club di subacquei di Monaco che frequentava il Giglio): è questo il nome riportato nel diario di bordo di Reg.
Nel 1963, un anno dopo il furto, in una rivista scientifica tedesca appare un articolo di F. J. Hassel[58], un archeologo che pubblica un elmo di proprietà di un “collezionista” del Nord della Germania che dichiara che il reperto è stato rinvenuto in Grecia:“als Fundort ist Griechenland angegeben”. Niente di più falso: l’elmo che Hassel data intorno al 580 a.C., è il reperto prelevato al Giglio e il “collezionista” è Franz che, dopo averlo esportato clandestinamente in Germania, lo fa restaurare e sottoporre a perizia.
Hassel ringrazia un certo F. Waih di Magonza per alcune fotografie e un disegno. Waih era il restauratore? La pubblicazione di Hassel contiene due fotografie e due raffigurazioni grafiche dell’elmo con precise misurazioni; un terzo disegno rappresenta i cinghiali incisi sulle paragnatidi (paraguance). L’archeologo riferisce alcuni particolari che possono essere osservati solo esaminando di persona il reperto. L’elmo era dotato di fodera, fissata con puntine di bronzo a piccoli fori. Hassel non rintraccia i binari, la forcina o altri sistemi di fissaggio della cresta o del pennacchio che, di solito, era di crine di cavallo e asportabile; per questo mette in dubbio che l’elmo fosse crestato, anche se proprio sulla calotta osserva tracce di un rimaneggiamento moderno.
Ma torniamo al racconto di Bound in Archeologia Viva. Mensun e Jo rintracciano l’elmo con un metodo che ha dell’incredibile, non solo per chi oggi comunica con il mondo intero carezzando un cellulare. Dopo aver consultato le guide telefoniche della Germania, a Baden Baden chiamano da un telefono pubblico, uno dopo l’altro, alcuni abbonati che rispondono al cognome che era stato loro riferito. Non sono noti i successivi passaggi. Certo è che incontrano Franz e riescono a convincerlo, “dopo uno scambio di lettere dall’Università e la firma di alcuni documenti legali”[59], cioè probabilmente dopo che Oxford ha fornito garanzie di anonimato, a mostrare il reperto custodito e nascosto in una banca di Amburgo, in cassetta di sicurezza. Ottengono anche di effettuare fotografie e misurazioni e di pubblicare le immagini a scopo di studio.
Da allora l’elmo è stato pubblicato più volte, sia in testi scientifici che divulgativi ed è approdato in internet.
In Archaeogate, 07-10-2001[60], si legge che la Soprintendenza Archeologica ha informato il Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri per il recupero ufficiale, ma che “prima dello scavo ufficiale, manca l'elemento giuridico probante un'azione di trafugamento, quindi il presupposto per la pratica di restituzione”. Inoltre: “in questa sede siamo tenuti ad un doveroso riserbo sulla preziosa attività investigativa da tempo svolta dal Nucleo Tutela dei Carabinieri”. Intanto passano altri dieci anni e dell’elmo si perdono le tracce. Nella banca dati Beni culturali illecitamente sottratti dei Carabinieri non è reperibile.
In questo senso la storia della nave “infame” non conosce la parola FINE che sarà possibile scrivere solo dopo la restituzione allo Stato italiano, all’Isola del Giglio, al patrimonio culturale dell’Umanità. Non sono sufficienti le testimonianze dei subacquei presenti al rinvenimento e la “prova scritta” nel taccuino di Vallintine? O si preferisce aspettare che i protagonisti e i testimoni oculari della vicenda, oggi ultraottantenni, siano tutti morti? A quasi 50 anni dal ritrovamento e dall’appropriazione indebita, Franz l’Innominato è passato a miglior vita. Il suo cognome peraltro è noto a più persone, non solo al Giglio. In questo caso, sono ancora validi gli accordi (“legali” a che titolo?) intercorsi con l’Università di Oxford? Allertata da trattative internazionali, la polizia tedesca in una manciata di secondi è in grado di identificare gli eredi e la banca dove fu depositato il reperto.
Più difficile sarebbe scovare l’acquirente se l’elmo è stato venduto, come spesso avviene, con transazioni illegali che non lasciano traccia. Per questo sono sempre disponibili mercanti mafiosi abili nell’esportazione clandestina, persino in valigia diplomatica. Esiste però, almeno in teoria, anche la possibilità che un acquirente privato e facoltoso, ignaro o consapevole della provenienza del reperto, anziché specchiarsi nel bronzo lucente come un Narciso dannato dalla propria immagine riflessa, faccia un gesto munifico e lo restituisca. In tal caso non sarebbe un ricettatore, ma un mecenate: avrebbe acquistato l’elmo del Giglio non per i suoi interessi privati, qualunque essi siano, ma nell’interesse pubblico. Tutti gliene sarebbero grati: nel cinquantenario dell’immersione, del rinvenimento e dell’appropriazione indebita dell’oggetto, al Giglio, in Italia, ovunque, sarebbe gran festa.
L’elmo, infatti, non è semplicemente un reperto straordinario per la sua eccellente qualità artistica.
Per l’Isola del Giglio è un emblema della sua storia e della sua identità, come lo sono le rocce granitiche, le miniere, il mare e il Parco Nazionale delle isole toscane. Per il resto del mondo è un simbolo, restituito dal mare, della diaspora dei naviganti greci che da un estremo all’altro del Mediterraneo trasmisero la loro cultura e il loro alfabeto, recepito con alcune modifiche e poi diffuso dalla cultura latina, dotando l’Occidente della sua memoria storica. Viaggiavano per mare con navi simili a quella naufragata al Giglio che non era etrusca, ma greca. Greco-orientale era il naukleros, l’impresario che la guidava[61] annotando i suoi affari nel computerino di legno.
Non so cosa pensino i Gigliesi della vicenda, né cosa pensino o penserebbero, se informati, gli altri titolari (circa 60 milioni di persone) del patrimonio rappresentato dall’elmo del Giglio e legittimi proprietari. Per quanto mi riguarda, l’elmo mi appartiene, non meno dell’elmo di Scipio dell’inno nazionale. E’ mio, come il Colosseo, e lo rivoglio.
6.8 Termine degli scavi. Bilancio e conclusioni
Gli scavi proseguono prima e dopo la “riscoperta” dell’elmo (ottobre 1984) e si concludono nel 1985 con il recupero di parti della chiglia e del fasciame, che permettono di accertare la tecnica di costruzione della nave. Alcuni legni erano stati individuati nel 1983, altri nell’84, coperti da uno spesso strato di resina. Per farli emergere senza danno è necessaria la costruzione di un apposito imballaggio[62]. Tutte le persone presenti al Giglio partecipano con grande emozione alla conclusione dello scavo, ripresa e propagata dai media, radio, televisioni e stampa. Qualche giornale definisce “eroica” l’impresa. In un primo momento pensai alla tipica enfasi dei giornalisti che chiamano eroici i calciatori quando realizzano una buona rimonta nel secondo tempo della partita. In seguito, invece, ho capito che il termine è appropriato. Sfidare il mare per un bene comune in un ambiente ostile all’uomo come quello subacqueo, nelle condizioni affrontate dalla spedizione di Oxford, ha davvero qualcosa di sovrumano. Un sommozzatore britannico, Christopher Tustian, colpito da embolia, lo fece a prezzo della sua giovane vita ed è giustamente ricordato in un pannello esposto nella mostra sul relitto.
Dopo il recupero delle parti lignee dello scafo, con la collaborazione di Giuseppe Rum, maestro d’ascia gigliese, Bound e la sua equipe ricostruiscono in grafici una sezione della chiglia[63] e il sistema di cucitura dei legni[64]. E’ una tecnica arcaica, sostituita al tempo del naufragio e nelle epoche successive, per la navigazione d’altura e non solo, quasi ovunque da quella a “mortase e tenoni” che congiungeva le assi con tasselli inchiodati. Poteva essere ancora in uso sia presso gli Etruschi che da parte dei Greci, ma il confronto con altri relitti successivamente recuperati e l’analisi del complesso dei reperti provenienti dal relitto identificano il natante come un mercantile originario di un porto greco-orientale, forse Samo o Focea, diretto probabilmente verso una colonia dei Focei (Massalia/Marsiglia?) sulla costa meridionale della Francia[65]. Aveva sostato, per commerci e rifornimenti, prima a Corinto, poi in Sicilia (via Messina-Reggio), in seguito in uno o più porti dell’Etruria meridionale, infine al Giglio, dove al Castellare del Campese esisteva un insediamento della stessa epoca del naufragio. Tra la Sicilia e l’Etruria, il vascello aveva fatto soste per rifornimenti? Dove?
Bilancio complessivo: etrusche, di due tipi diversi, sono in maggioranza le anfore[66]; contenevano olive (identificate da 800 noccioli), resina e pinoli. Etruschi sono anche il vasellame di bucchero e altri piccoli oggetti[67], ma il resto del carico è di provenienza greca: corinzia[68], laconica[69] e greco - orientale[70].
Meno chiara è la provenienza dei lingotti (4 di rame, 9 di piombo), contrassegnati o numerati con lettere dell’alfabeto greco: era egea, era orientale, va collegata alle attività del territorio metallifero toscano?
Di fattura greca sono, con molta probabilità, due calibri[71] recuperati durante l’ultima campagna di scavi da una concrezione di ferro che li aveva protetti. La testa, in legno con incise lettere greche, dotata di punte metalliche per fissare lo strumento all’oggetto da misurare, ha un aspetto molto simile a quello dei calibri di tipo Vernier in uso oggi. Una scoperta senza precedenti: gli strumenti usati per misurazioni di estrema precisione, p. es. nella manifattura del legno, potrebbero essere appartenuti all’artista/artigiano che aveva fabbricato i raffinati oggetti intarsiati restituiti dalla resina. Era anche lui, con le sue competenze tecniche, a bordo della nave?
Un pezzo di granito bianco non lavorato[72], lungo 2 metri, e un secondo, situati nelle vicinanze della chiglia, confrontati con ancore che la Guardia di Finanza aveva sequestrato a sommozzatori e con altre di cui si conservano al Giglio le fotografie o la memoria dagli anni ’60, fanno ritenere che la nave abbia sostato al Campese per caricare da una cava locale le pietre destinate alla fabbricazione di ancore. Forse sbilanciata dal peso e sorpresa dalla tempesta, la nave, dopo aver urtato lo scoglio, affondò.
E’ incredibile quanta documentazione sia affiorata da un’area sottomarina da un carico disperso prima per naufragio e poi per saccheggio. La perdita di reperti e di informazioni causata dai “relittari” non è quantificabile, ma deve farci riflettere su quanto sia sconsiderata la violazione di ogni sito archeologico.
I reperti del relitto greco arcaico del Giglio sono esposti nella Fortezza Spagnola di Porto Santo Stefano, Monte Argentario, nelle mostre permanenti: Memorie sommerse e maestri d’ascia.L’allestimento è chiaro, equilibrato e informativo, rispettoso dei visitatori che non conoscono il greco e i termini tecnici ma vogliono documentarsi sulla straordinaria storia di questo e di altri relitti, del loro recupero e sull’arte della carpenteria navale. Dalle terrazze della Fortezza Spagnola si osserva un magnifico panorama: la costa il mare le isole. Sotto il mare la storia, quanta storia. All’interno del museo il visitatore se ne rende conto, con gratitudine verso chi opera per farla emergere.
7.1 Il relitto del Giglio e Punta Chiarito
Una storia da raccontare e da ricordare quella del recupero del relitto, anche per la cooperazione con istituzioni scientifiche straniere.
Che cosa c’entra la nave greco - orientale naufragata al Giglio all’inizio del VI secolo (590-580) a.C. con il sito archeologico di Punta Chiarito e con i nostri sforzi di individuare elementi storici comuni tra Ischia e il Giglio?
Nella parte II di Ischia & Giglio - Storie parallele, pubblicata nel nr. 2/2011 di La Rassegna d’Ischia, ho sottolineato alcune analogie e alcune differenze tra il sito archeologico di Punta Chiarito (Ischia) e quello del Castellare del Campese (Giglio), coevi nella prima metà del VI secolo a.C.. La cronologia del naufragio è più alta di quella della frana, probabilmente solo per pochi decenni. L’insediamento del Giglio è sicuramente collegabile alla presenza della nave naufragata nelle acque a Nord-Ovest dell’isola.
Focalizziamo la nostra attenzione sul naukleros, il mercante, impresario, forse capitano, che dalla lontana costa ionica dell’Asia Minore frequentava i porti e gli empori e della Grecia e Magnagrecia, della Sicilia, dell’Etruria Meridionale, di isole tirreniche e del Mediterraneo Occidentale. Il suo profilo, ricostruito da Cristofani[73] in modo molto convincente, ne ha evidenziato le caratteristiche aristocratiche: era portatore di cultura e saperi, il simposio, la musica, le lettere, arti armi e tecnica, di merce propria, composita e selezionata, per praticare il commercio, anche al minuto, di qualità, “a un livello, che nella Grecia orientale, può essere rappresentato da personaggi come gli ecisti di Massalia, come Alceo o Charaxos, fratello di Saffo, o Semonide di Amorgo (…) ai quali, a partire dalla fine del VII secolo a. C., le aristocrazie etrusche concedono luoghi e spazi di accoglienza”[74]. Erano stati preceduti, secondo la tradizione, da naviganti greci di nobile origine: Tarquinio Prisco, il primo re etrusco di Roma (616-578 a. C.), era figlio del corinzio Damarato[75], un aristocratico arricchito dai commerci, che approdò a Tarquinia intorno alla metà del VII secolo. Di origine greca e aristocratica sembra essere anche un certo Rutile Hipucrate, sepolto in una ricca tomba nella necropoli di Tarquinia verso la metà dello stesso secolo[76]. Gli studiosi non sono concordi nel riconoscere nell’elmo del Giglio un’armatura da parata piuttosto che da combattimento. In effetti è un ‘casco integrale’, atto non tanto a proteggere in battaglia chi lo indossa, quanto a trasmettere un chiaro messaggio: “Chi mi è ostile, avrà a che fare con il potere regale, magico e vendicativo dei serpenti che vi sono raffigurati e con l’impeto devastante dei cinghiali in combattimento: non mi torcerà neanche un capello”. Ma anche, se indossato o portato a braccio, con o senza cresta, da un mercante al suo ingresso nel porto di un emporio, dimostrativo dell’eccellenza della sua mercanzia, come certamente avrà segnalato il resto dell’armatura.
Pericle nel ritratto idealizzato dei Musei Vaticani porta in capo un elmo corinzio, non per nascondere un difetto fisico, come affermano i maligni (Plut., Pericl. 3), ma come distintivo della sua dignità.
La statua Bronzo A di Riace, nella sua nudità, portava rialzato sulla fronte un elmo corinzio.
I Greci-orientali erano inclini a presentarsi agli interlocutori per trattative sfoggiando paramenti molto vistosi: Erodoto[77] racconta che i Focei inviarono ai frugalissimi Spartani un ambasciatore vestito di porpora.
Selezioniamo ora alcuni reperti dal carico della nave:
1. I grumi di rame
2. L’ambra
3. Il vasellame pregiato corinzio, orientale ed etrusco (crateri, coppe ioniche di tipo A2, kantharoi), non solo mercanzia, ma indicatori di uno stile di vita aristocratico (simposio)
4. Il kothon corinzio
5. I raffinati aryballoi
6. Le pissidi di provenienza orientale
7. Le lekythoi samie
8. Il vasellame d’uso domestico, samio o greco orientale (anfore, lucerne, olpai)
9. Il sontuoso elmo corinzio.
Omettiamo di proposito gli strumenti (universali) finalizzati alla pesca.
Trasferiamoci quindi non a Punta Chiarito, dove si vede un magnifico panorama di Capri e di Sorrento (Punta Campanella), ma niente del sito archeologico, bensì nelle sale dedicate a Ischia (124 e 125) del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Nella vetrina 2 della sala 124 sono esposti i materiali d’importazione rinvenuti nella capanna che fu investita e sepolta, in piena attività, nella prima metà del secolo VI a. C. da una possente frana[78].
Tra questi osserviamo:
1. Un servizio potorio con cratere e ceramica d’uso orientale (un cratere laconico e due coppe ioniche di tipo B2 e B3)
2. Un bacile di bronzo con orlo perlinato, (provenienza etrusca, datato prima del 590 a.C. [79])
3. 2 coppe di “bucchero grigio orientale”
4. 1 piccolo vaso (stamnos) (probabilmente fabbrica ionica)
5. 1 lekythos samia
6. 1 brocca (fabbrica etrusca?).
7. 2 lucerne di fabbrica greca non identificata
8. 2 lekanai nere biansate mesocorinzie
9. 1 kothon mesocorinzio
10. 1 pisside mesocorinzia
11. 1 aryballos corinzio a quadrifoglio
12. 1 collo d’anfora da trasporto corinzia
13. 1 anfora grezza di fabbricazione non locale
Nella vetrina 7 è esposto un piccolo vaso di fabbricazione locale contenente 6 grumi di rame puro, un possibile mezzo di pagamento premonetale. Nella stessa vetrina sono esposti piccoli frammenti di ambra, non catalogati, pertinenti, secondo le didascalie, a monili[80]. Infissi nel piano di calpestio della capanna di Punta Chiarito c’erano contenitori d’importazione: etruschi (anfore tipo PY 3A), chioti e corinzi (anfore di tipo B).
La presenza di oggetti propri di un rituale sociale aristocratico in un insediamento che si presuppone di carattere agricolo e abitato da pescatori è una discrepanza che “lascia aperta più di una ipotesi sullo status della piccola comunità che risiedeva nel villaggio di Punta Chiarito”[81] oppure viene risolta con “l’avvenuta adesione anche di gruppi sociali di rango inferiore (pescatori e agricoltori) all’ideologia dei ceti dominanti”[82].
Nel film Rai con la ricostruzione della capanna che viene mostrato in video ai visitatori del Museo archeologico di Pithecusae a Lacco Ameno (Ischia) il corredo di materiali d’importazione, “anomalo” per lo stile di vita di chi occupava l’edificio nella cui dispensa era stipata una quantità di vasellame comune da mensa degna di un’osteria, è in bella mostra su mensole, come l’argenteria in un salotto borghese.
Chi conosce Ischia sa che sotto Punta S. Pancrazio, su una piccola spiaggia, nella stagione estiva è aperto un ristorante raggiungibile solo per mare: il gestore mette in tavola ottime verdure di produzione locale e pesce freschissimo. Se possiede un’azienda agricola, certo non su quel tratto di costa, porterà i suoi prodotti in barca da Campagnano, da Panza o dove sia, fino al locale che i pescatori, p. es. di S. Angelo, riforniscono di pesce. Si procurerà da fornitori quant’altro sia necessario alla dispensa, alla cucina, ecc.. Ebbene, se nel ristorante viene rinvenuto un costosissimo Rolex, smarrito o dimenticato, a chi può appartenere? Al gestore, al cuoco, al lavapiatti, al fornitore, al pescatore, a uno dei clienti che sostano nel locale che hanno raggiunto a bordo di un lussuoso yacht? Certo, nulla si può escludere, ma se in quella situazione all’ultima ipotesi si preferisce una delle precedenti, compresa la prima, l’attribuzione sarà meno verosimile e la spiegazione più complessa. Questa parabola ambientata nell’isola di oggi potrà sembrare curiosa o bizzarra, ma facilita il percorso per arrivare alle conclusioni.
7.2 Conclusioni
Alcuni reperti del Chiarito sono di provenienza greco - orientale, altri corinzi, altri etruschi. Il vascello naufragato al Campese era di provenienza greco-orientale e trafficava con Corinto e l’Etruria, come molte navi all’epoca. Questo naturalmente non significa che il naukleros che trasportava il bellissimo elmo corinzio sia passato da Punta Chiarito, ma il carico del suo emporio galleggiante suffraga l’ipotesi di una frequentazione, in quella posizione geografica, a Sud dell’Isola d’Ischia, di navi di quel tipo, lungo una rotta che attraverso il Tirreno conduceva verso l’Elba, la Sardegna, la Corsica, l’Etruria e il Mediterraneo Occidentale. Gli oggetti pregiati, non consoni all’ambiente in cui si trovavano, potrebbero essere il frutto di commerci con naviganti dallo stile di vita aristocratico, come il naukleros del Giglio.
Questo, negli anni tra la fondazione di Marsiglia (600 a.C.) e la rottura degli equilibri tra Etruschi e Greci che portò alla battaglia del Mar Sardonio (540 a.C.) e all’abbandono della colonia corsa di Alalia da parte dei Focei[83] è senz’altro possibile. Anziché fare riferimento a modelli letterari come l’Iliade (aristocrazia militare), odissiaci (localizzazione in Occidente dei miti odissiaci) o esiodei (figure emergenti in una società agricola)[84] che poco hanno a che fare con la realtà pitecusana del VI s. a.C., sarebbe interessante approfondire in questa direzione l’indagine archeologica sui materiali e ampliarla a quella storica sui circuiti commerciali mediterranei nella prima metà del VI s. a.C., per verificare l’ipotesi che l’insediamento, periferico rispetto ad altri di Pithekoussai, fosse finalizzato alla pesca e al rifornimento delle navi di passaggio, a un’attività commerciale stagionale di supporto nell’economia in declino, dopo la fondazione di Cuma, di un’isola fertile ma colpita da continue catastrofi territoriali (terremoti, eruzioni vulcaniche e frane), ricca di risorse minerarie (argilla, tufo e altre formazioni vulcaniche) e minerali (acque, anche potabili), boschive (legname) e, soprattutto, in posizione privilegiata sulle rotte tirreniche.
NOTE
[1] “Infame”: così titolava Archeologia Viva, 4.12.1985, Parte I, p. 52. “Infame” per traslato dal saccheggio all’oggetto del saccheggio? Per la sventura dei marinai che perirono nel naufragio?
[2] McKee (†1992), autore di più di 20 opere di storia nautica, fu lo scopritore della Mary Rose, una caracca da battaglia inglese affondata nel 1545 sotto lo sguardo del re Enrico VIII. Nel 1984 pubblicò Rescue records - Giglio and Giannutri IJNA, 13.1, pp. 83-85 con informazioni su almeno 6 relitti presenti nelle acque intorno al Giglio all’inizio degli anni ’60. Nel 1985 pubblica Tarquin’s Ship in cui racconta le sue esperienze al Giglio all’inizio degli anni ’60 e ‘80. La recensione di Bound nel 1988 (IJNA, 17.2, pp. 191-194) ne critica aspramente il dilettantismo e l’incompetenza in materia di storia antica e archeologia, tuttavia il libro di McKee è un interessante documento sullo spirito che animava all’inizio degli anni ’60 la “caccia al tesoro” dei subacquei e sugli interessi che alimentavano quella forma di turismo molto particolare. McKee replicò a Bound in IJNA 18.1.1989, pp. 71-73.
[3] Bound 1991a, p. 181, Morris, Rowlands, p. 20.
[4] Narcosi da azoto, una sindrome da intossicazione che può colpire chi s’immerge oltre i 40 metri con autorespiratori ARA.
[5] In Bound-Vallintine, p.113 si parla, invece, di: “discovered in the late 1950s or very early 1960s” dunque di una eventuale scoperta prima del ’61. Anche in Bound 1991a, p.181.
[6] London Diver,Aprile 1962, citato da McKee 1985, p. 111 e Bound 1995b, p. 57.
[7] Bound 1985b, p. 54.
[8] Nella sua autobiografia (Deep in the Blue: A Life of Diving, London 2007) Vallintine pubblica (fig. p. 21) la foto con il nome della donna che mostra i reperti: Mary Bruce.
[9] La fotografia della pagina del diario di bordo (v. fig. 1) è esposta in un pannello della Mostra permanente nella Fortezza Spagnola di Porto S. Stefano.
[10] Corriere della Sera, 27.02.1994, p. 39. Mostra: Un mercante greco in Occidente. Il relitto arcaico del Giglio Campese.
[11] Nino Lamboglia, ligure, fu il pioniere dell’archeologia sottomarina in Italia. Dirigeva gli scavi da una campana batoscopica. Morì tragicamente nel 1977: mentre accedeva alla rampa di un traghetto nel porto di Genova, la sua automobile mancò il vano d’ingresso nella poppa della nave e fu inghiottita dal mare. Picozzi, p. 15.
[12] Gianfrotta, p. 339.
[13] Forse del IX secolo a. C., spedizione McCann dell’American Academy in Rome, Picozzi, p. 53 e 54.
[14] Gianfrotta, p. 20.
[15] Legge 1089 del 1 giugno 1939 sui BBCC sommersi. E’ in Parlamento la proposta di legge nr. 2302, testo del 2 febbraio 2011 per la creazione di una Soprintendenza del mare e delle acque interne per tutto il territorio nazionale sul modello della Regione Sicilia che ne ha una dal 2004, integrata dal decreto del 12.8.2010 sulla tutela dei BBCC sottomarini: www.regione.sicilia.it/beniculturali/ - www.artasicilia.it/.
[16] www.unesco.org/.../unesco/.../underwater-cultural-heritage/.
[17] Capo Chelidonia, Turchia, 1960, Gianfrotta, p. 12.
[18] Un kothon simile, molto ben conservato, si può vedere in Google Immagini, s. v. kothon, p. 7, Wellcome Library, London Museum No. 4519/1937. http://images.wellcome.ac.uk/indexplus/result.html.
[19] M. Bound, R. Vallintine, A Wreck of possible Etruscan origin off Giglio Island, IJNA 12. 2. 1983, pp. 113-122.
[20] Bound 1985b, p. 59.
[21] P. es.: Morris, Rowlands; BBC TV, Radio Times.
[22] Ancora oggi almeno una quarantina sono acquistabili sul Web.
[23] Thornton, segnalato da Bound in IJNA 12.2. 1988, p. 194.
[24] Bound 1985a.
[25] G. Schmidt, Il livello antico del mar Tirreno, Firenze 1972, citato da Bound 1991a, n. 32, p. 197.
[26] Bound 1991a, p. 196.
[27] Bound 1991b, p. 50, Morris, Rowlands, pp. 23-26.
[28] Rogerson, Dive Magazin, 1 maggio 2002.
[29] Bound 1985b, p. 51; 1991c, p. 23.
[30] Bound 1986, p. 61, McKee 1985, p. 175, s.
[31] Bound 1991b, p. 210, figg. 21 e 22.
[32] Fu accertato da analisi eseguite presso l’Università di Bristol: Bound 1991b, p. 209; v. anche 1991c, p. 23.
[33] La resina di Chio, oggi la più pregiata, si ricava da un arbusto della famiglia delle anacardiacee, il Pistacia lentiscus ed è nota come mastice di Chio(mastícha tis Chíou), dall’isola greca da cui proviene. Viene usata insieme all'anice per aromatizzare l'ouzo, alcuni dolci (lokoùmia), per produrre confetti da usare come chewing-gum, in profumeria, farmacia ed altro.
[34] Janni, p. 66 con relative note.
[35] Sul pino d’Aleppo: Cantarelli, De Francesco, p. 41, n.17.
[36] Sull’evoluzione della moneta dalle fasi preparatorie agli inizi di quella legale, Breglia, pp. 173-205.
[37] Bound 1991b, pp. 210, 230 e 231, fig. 73, p. 242 misurazioni e analisi mineralogica; 1991c, p. 26, fig. 54; Cristofani, pp. 38 e 43.
[38] Bound 1991b, p. 210, 1991c, pp. 28 e 32, fig. 74. Dimensioni: mm 30x19 e 27x19. L’ambra, in greco élektron, da cui elettricità per le sue proprietà magnetiche, aveva un notevole valore commerciale e veniva utilizzata nella fabbricazione di monili.
Le si attribuivano proprietà magiche e terapeutiche, come avviene ancora oggi in alcune culture. L’ambra proveniente dal Nord Europa veniva veicolata in particolare dalla colonia focea di Marsiglia. V. NP 2, s.v. Bernstein.
[39] Breglia, pp. 179-181.
[40] Bound 1991b, pp. 231e 242; 1991c, pp. 26 e 27 fig. 55 e 56; Cristofani, p. 34.
[41] Bound 1991b, p. 233, s.; Cristofani, p. 38 con n. 48. I tubicini, con sezione circolare dovevano appartenere a strumenti di 20 fino a 40 cm di lunghezza. Gli auloi eranocilindrici presso i Greci, conici presso gli Etruschi. Sulle navi da guerra gli auloi erano usati per scandire il tempo ai rematori.
[42] Bound 1991c, p. 27, fig. 64 p. 30. Gli astragali originariamente erano ossicini del tarso di piccoli animali, usati come dadi per la loro forma abbastanza regolare e la dimensione differente dei lati, che permetteva di attribuire a ciascuna faccia un preciso valore numerico.
[43] Pisside, diametro circa 5 cm: Bound 1991c, p.27 e p. 30, fig. 64; Cristofani la identifica come ionica, p. 31. Sulla probabile origine greco-orientale veicolata dai Focei: Antonelli, p. 169 s., n. 40.
[44] Frammenti di una oinochoe, brocca per versare il vino, e un kantharos di bucchero privo di un’ansa, Bound 1991c, p. 21, fig. 32.
[45] I frammenti del cratere corinzio recuperato dalla voragine, di altre 4 oinochoai corinzie, le coppe ioniche, delle quali una è quasi integra, una conservata in parte. I frammenti di altre coppe ioniche sono circa 80: Bound 1991c, p. 20, figg. 30 e 31.
[46] I due kantharoi integri testimoniati dalla foto di Vallintine (cfr. p. 2 con n. 8) e i frammenti di altri (10-11), Bound 1991c, p. 21.
[47] Musti, p.19.
[48] Bound 1991c, p. 16.
[49] 28 corinzi, 6 (16?) laconici, Cristofani, pp. 27-29, cfr. n. 69.
[50] Cristofani, p. 31.
[51]Piccoli reperti non identificati con certezza: Bound 1991b, pp. 236 e 237; 1991c, p. 32, figg. 69, 70, 71,72. Quelli che inizialmente erano stati identificati come plettri, sembrano essere parti di intarsi: Antonelli, p. 169, s., n. 40.
[52] Bound 1991c, pp. 26 e 27, figg. 57- 60.
[53] Bound 1991c, pp. 24 e. 25, figg. 47-49. Complessivamente sono 30.
[54] Pomey, pp. 48-56; Alecu 2004, p.131 n. 39.
[55] Bound 1995a, p. 65.
[56] Bound 1985a, p. 56.
[57] McKee 1985, p. 150.
[58] Hassel, p. 190, s. e Tav. 27, 1-2.
[59] Bound 1985a, p. 56, cfr. n. 56.
[60] Il relitto del Campese. Un caso emblematico degli anni ottanta - di Paola Rendini e Flavia Zisa, con fotografia a colori tratta da P. Pomey (cur.), La navigation dans l'Antiquité, Aix-en-Provence, 1997, p. 53. V. http://www.archaeogate.org/subacquea/article/94/1/il-relitto-del-campese-un-caso-emblematico-degli-anni-o.html. L’elmo è pubblicato in internet anche in Bound 1995b, p. 106, s..
[61] Cristofani, p. 47, s..
[62] Bound 1986, pp. 58 e 60. Per la tecnica di costruzione v. n. 64. Per l’imballaggio: Bound 1986, p. 52.
[63] Bound 1991c, p. 33, fig.76 e 1986, pp. 50 e 51.
[64] Bound 1991c, p. 32, fig.75, p. 34 fig. 77 e Bound 1986, p. 58. Sulla tecnica a “mortase e tenoni” e di cucitura Janni, pp. 53-63.
[65] Antonelli, p. 125 n. 70, riporta l’ipotesi di Bats, rifiutata da Gras, secondo la quale l’imbarcazione poteva appartenere a un Massaliota che faceva ritorno a casa dopo aver sostato a Gravisca.
[66] Oltre 130 i frammenti (“diagnostic amphora pieces”) Bound 1991c, p. 22; l’anfora punica fotografata da Vallintine potrebbe essere residuale, Cristofani, p. 26.
[67] Una piccola olpe di bronzo, un aryballos etrusco corinzio, un’olla, dei piatti (frammenti), Cristofani, pp. 31-34 e 46.
[68] Cristofani: 28 aryballoi, p. 27; uno o più crateri, 5 oinochoai, 1 kothon, p. 37; per l’elmo Cristofani, p. 35.
[69] Cristofani, gli aryballoi,p. 29 (dovrebbero essere 6 o 7, non 16), 2 bicchieri, acquisiti probabilmente in Sicilia, p. 65.
[70] Cristofani, le anfore (6 samie, 1 clazomenia), p. 23; 2 coppe ioniche A 2 e 80 frammenti, p. 26; 2 lekythoi sud-ioniche; 6 lucerne, alcune annerite dall’uso, 1 bacile, 5 olpai, i raffinati oggetti di legno intagliato tra cui il coperchio della pisside (Cristofani, pp. 23-27 e p. 31).
[71] Bound 1985b, p. 63; 1991c, p. 31, fig. 65 e 1995b, pp. 100-101.
[72] Bound, 1986 p. 56, s.; 1991c, pp. 35-37.
[73] Cristofani, p. 47 s..
[74]Alceo (se si recò in Egitto: Strab., 1, 2, 30), o Charaxos, fratello di Saffo (Strab., 17. L. 33; Athen., 13, 596) o Semonide di Amorgo (fr. 16 West), Cristofani, l. cit. nella nota precedente. I Focei che guidarono la fondazione di Massalia erano Simos e Protis, forse anche Euxenos, padre di Protis. (Just. 43,3, 8-11); da notare che i primi tre hanno in comune l’ambiente letterario.
[75] Dion. Hal. 3, 46, 3.
[76] Antonelli, p. 124.
[77] Herod. I, 132.
[78] V. Alecu 2004 e 2005; 2011b, pp. 43-46 e 20.
[79] Johannosky in: M. Bats-B. d’Agostino, p. 411.
[80] Didascalia nella vetr. 2, sala 124 del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
[81]De Caro, Gialanella 1998, p. 343.
[82] De Caro in: De Caro, Gialanella 1999, p. 29; v. anche De Caro, pp. 169 -171.
[83] Alecu 2011a, p. 23, s..
[84] Mele in M. Bats- B. d’Agostino, p. 410, s..
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