Esecuzione forzata immobiliare: in caso di mancata vendita al terzo incanto, l’agente per la riscossione può chiedere l’assegnazione diretta dell’immobile.
Esiste una norma [1], che opera nel caso delle riscossioni esattoriali fatte per il
recupero dei tributi, che in pochi conoscono e che potrebbe costituire una vera e propria mannaia per quanti subiscono il pignoramento della casa da parte di Equitalia. In pratica, tale disposizione consente allo Stato di prendere “con la forza” gli immobili degli evasori qualora l’asta vada più volte deserta e, quindi, non si riesca a venderli. Ma vediamo meglio di cosa si tratta.
Come si svolge la prima fase dell’asta
Conosciamo ormai bene i limiti che Equitalia incontra nel pignoramento dell’unica casa di proprietà e residenza del contribuente (da noi già trattati nell’articolo “Debiti con Equitalia e pignoramento della casa: tutte le ipotesi”).
Fuori, però, da questi casi, qualora sia in corso un pignoramento immobiliare, e il creditore sia lo Stato, l’Agente della riscossione (Equitalia, appunto) procede direttamente alla vendita dell’immobile pignorato. Lo può fare solo attraverso una procedura che si chiama “pubblico incanto [2]” e, peraltro, senza alcuna necessità che intervenga l’autorizzazione di un giudice. L’incanto è tenuto e verbalizzato dall’ufficiale della riscossione, come una sorta di procedimento interno. Insomma, tutto molto diverso da come accade, invece, nelle normali esecuzioni forzate di immobili dove la procedura si svolge innanzi a un Tribunale e a un giudice (detto “giudice dell’esecuzione“).
Sottolineiamo nuovamente questo aspetto: nel pignoramento di Equitalia non c’è alcun intervento di un giudice terzo e imparziale, il quale non presiede l’incanto nell’aula delle pubbliche udienze.
La seconda particolarità da sottolineare è che, nell’esecuzione esattoriale non viene nominato alcun consulente tecnico del giudice per determinare il valore dell’immobile (quello che volgarmente viene detto “perito estimatore”): pertanto il prezzo base al quale verrà “battuto” l’immobile viene determinato, in caso di fabbricati, in base al valore automatico determinato attraverso i dati catastali. L’obbligo di perizia resta solo in caso di vendita di terreni edificabili.
La procedura: primo e secondo incanto
Ebbene, la procedura si svolge in questo modo (cercheremo di essere semplici e sintetici). L’Agente della riscossione deve effettuare il primo incanto (ossia l’asta) entro 200 giorni dal pignoramento e gli incanti successivi entro un intervallo minimo di 20 giorni.
Se con il primo incanto non si riesce a vendere l’immobile pignorato per mancanza di offerte valide, si procede al secondo incanto nel giorno fissato dall’avviso di vendita e con un prezzo base inferiore di 1/3 rispetto a quello precedente.
Come detto, tra un incanto e l’altro devono decorrere almeno 20 giorni.
Qualora si debba procedere a un terzo incanto, il prezzo base sarà inferiore di 1/3 rispetto a quello del precedente incanto.
La mannaia per il debitore
In caso di mancata vendita anche al terzo incanto, Equitalia, se procede per entrate tributarie dello Stato, nei 10 giorni successivi, può chiedere al giudice dell’esecuzione l’assegnazione diretta dell’immobile allo Stato per il prezzo base del terzo incanto. In pratica, con questa richiesta – che è, tuttavia, a discrezione dell’esattore creditore (nel senso che Equitalia può scegliere se presentarla o meno) – la casa del contribuente passa automaticamente in proprietà dello Stato. Risultato: il debitore dovrà fare le valigie e andare via al più presto.
In ogni caso, se il valore del terzo incanto è superiore rispetto al debito maturato dal contribuente, a quest’ultimo sarà dovuto il pagamento della differenza.
Un’assegnazione a valore deprezzato
Sappiamo tutti che i valori catastali degli immobili non rispecchiano mai il loro effettivo valore di mercato (tanto che, di recente, il Governo sta provvedendo alla riforma del Catasto: procedimento per il quale, tuttavia, occorreranno diversi anni). Il che significa che il prezzo di base dell’asta (operata in automatico da Equitalia secondo i dati catastali) parte già ridotto rispetto a quello effettivo del bene. Se poi si sommano i due successivi ribassi di 1/3, lo Stato ha così la possibilità di acquisire un immobile a “buon mercato“.
A questo punto, il giudice dell’esecuzione non può che prenderne atto e dispone l’assegnazione della casa allo Stato, fissando un termine per il versamento del prezzo, non inferiore a sei mesi.
In caso di mancato versamento del prezzo di assegnazione nel termine, il processo esecutivo si estingue salvo che Equitalia, entro i 30 giorni dopo la scadenza di tale termine, non dichiara di voler procedere a un quarto incanto per un prezzo base inferiore di 1/3 rispetto a quello dell’ultimo incanto.
Ma se neanche a tale incanto vengono formulate nuove offerte, il processo esecutivo si estingue definitivamente.
In buona sostanza, salvo che Equitalia chieda l’assegnazione della casa pignorata (in favore dello Stato) dopo il terzo incanto, si può procedere al massimo ad un quarto incanto; ma se neanche in tale caso si presentano offerenti, il pignoramento si chiude e il debitore viene liberato.
Se Equitalia agisce per crediti non dello Stato
La possibilità per Equitalia di chiedere l’assegnazione della casa non è prevista nel caso in cui proceda per somme che non sono entrate tributarie dello Stato. In tal caso, l’Agente della riscossione deve dichiarare, entro 60 giorni dal terzo incanto, di voler procedere a un quarto incanto, per un prezzo base inferiore di 1/3 rispetto a quello dell’incanto precedente. Se anche tale ulteriore incanto ha esito negativo, il processo si estingue.
Il processo si estingue anche in caso di mancanza di tale dichiarazione.
[1] Art. 85 DPR 602/1973.
[2] Art. 55 DPR 602/1973.
La Cassazione sconfessa l’indirizzo secondo cui mancherebbe il fine di lucro per il gestore del bar che diffonde in pubblico l’evento sportivo grazie alla suo contratto di tipo domestico.
Cambio di rotta della Cassazione: da oggi l’atteggiamento dei giudici sarà più severo nei confronti del gestore del locale che utilizzi, all’interno della propria attività commerciale, la smart card di uso domestico per la visione a pagamento di canali televisivi. Così rischia quattro mesi di reclusione e 2 mila euro di multa il gestore del pub che trasmette la partita di calcio utilizzando la tessera abilitata solo per l’uso domestico.
A dirlo è la Suprema Corte con una recente sentenza [1] che taglia col passato: le precedenti pronunce dei supremi giudici, infatti, avevano escluso, in questi casi, il reato di diffusione abusiva della trasmissione.
Inutile contestare l’assenza di lucro da parte di chi si limiti a usare la card personale al bar, partecipando personalmente alla visione, senza voler perciò escludere i clienti, con ciò senza alcuna diretta intenzione di accrescere il proprio fatturato. Secondo la Corte, infatti, non importa l’intenzione: ciò che conta è il luogo di utilizzo della card, in questo caso in modo diverso da un’utenza di tipo domestico.
Per la Cassazione l’utilizzo del dispositivo in un luogo pubblico rientra nella nozione di diffusione in pubblico vietato dalla legge [2]. Sussiste anche il fine di lucro per chi diffonde l’evento sportivo in pubblico: l’intenzione di far lievitare gli incassi sarebbe, infatti, ravvisabile nell’intento di far confluire nel locale un maggior numero di clienti proprio per via della fruizione gratuita del servizio. Non è infatti una circostanza tanto inverosimile che l’uso della card sia un utile richiamo per fare “cassa”. Peraltro il reato scatta indipendentemente dal fatto che il lucro sperato con tale condotta sia raggiunto o meno, ossia che all’interno del locale ci sia una sola persona o cinquanta. La legge non esige che il fine venga realmente raggiunto per pervenire alla consumazione del reato.
[1] Cass. sent. n. 1991/15.
[2] Art. 171 della L. 633 del 1941.