Per molto tempo la Cassazione ha affermato che il licenziamento economico è legittimo solo se l’azienda è in crisi. Questo orientamento è stato superato dalle sentenze più recenti.
Nel corso del tempo, le sentenze dei giudici del lavoro, a cui si sono rivolti i dipendenti licenziati per sentire affermare la illegittimità del licenziamento, hanno chiarito quali caratteristiche deve avere un licenziamento per essere legittimo e quando, al contrario, il licenziamento del dipendente risulta illegittimo. I licenziamenti, tuttavia, non sono tutti uguali. In alcuni casi, infatti, l’azienda licenzia il dipendente come reazione ad un comportamento del lavoratore che il datore di lavoro non accetta. In altri casi, invece, la decisione di licenziare una o più unità di personale non c’entra nulla con il comportamento dei lavoratori ma dipende da scelte riorganizzative che portano a tagliare alcune posizioni professionali. In questi casi il datore di lavoro spesso si chiede: Posso licenziare per aumentare il profitto? Per molto tempo la risposta era un secco no. Le ultime sentenze della Cassazione sembrano invece segnare un cambio di prospettiva su questo tema.
Che cos’è il licenziamento?
Il licenziamento è la decisione del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro. Come ogni rapporto contrattuale, infatti, anche il rapporto di lavoro può cessare per iniziativa di una delle due parti. In questo caso parleremo di licenziamento quando questa decisione è assunta dal datore di lavoro e parleremo, invece, di dimissioni quando la cessazione del rapporto è determinata da una scelta del lavoratore.
Quando il rapporto cessa di comune accordo tra le parti si parla, al contrario, di risoluzione consensuale del rapporto.
Che requisiti deve avere il licenziamento?
Licenziare un dipendente, tuttavia, non è del tutto uguale a porre fine ad un contratto di leasing di una automobile. Il lavoro, infatti, è l’attività umana con cui ogni individuo guadagna per sé e per la propria famiglia le sostanza necessarie a condurre una vita dignitosa [1]. Il lavoro, nella prospettiva della nostra Costituzione, è anche un vero e proprio diritto [2].
Da ciò discendono tutte quelle regole che intendo limitare la possibilità dell’azienda di licenziare il personale e, comunque, impongono al datore di lavoro di attenersi a scrupolose regole per licenziare.
Innanzitutto il licenziamento deve essere sempre comunicato con una lettera scritta e non può mai essere comunicato al dipendente oralmente.
La forma scritta, infatti, consente al dipendente di avere certezza della decisione aziendale. Inoltre, nella lettera di licenziamento, il datore di lavoro deve indicare in maniera specifica le ragioni che sono alla base della decisione di licenziare il lavoratore.
In questo modo, il lavoratore ha la possibilità di conoscere i motivi posti alla base del licenziamento e di valutare anche se questi motivi sono realmente sussistenti o sono solo dei pretesti per cacciarlo dall’azienda.
Quali motivi legittimano il licenziamento?
La presenza di una lettera di licenziamento scritta con l’indicazione dei motivi però non basta a rendere il licenziamento legittimo. I motivi addotti infatti devono essere legittimi.
In altre parole, l’azienda in Italia non è libera di licenziare il dipendente a suo piacimento, indicando qualsiasi motivo, ma può farlo solo se il motivo addotto è idoneo a giustificare il licenziamento.
In particolare i motivi addotti possono riguardare:
- un comportamento gravissimo commesso dal dipendente che erode del tutto la fiducia in lui da parte dell’azienda. In questo caso parleremo di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Ad esempio, la Cassazione ha giudicato legittimo il licenziamento del dipendente sorpreso a rubare merce aziendale, oppure che attesta in modo falso la sua presenza in servizio, oppure ancora il dipendente che provoca una rissa all’interno dei locali aziendali;
- un’esigenza economica, produttiva o organizzativa aziendale. In questo caso parleremo di licenziamento economico ed è di questo che dobbiamo occuparci.
Che cos’è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo?
La struttura delle aziende non è sempre uguale nel tempo. Le esigenze aziendali cambiano e con esse anche la struttura dell’azienda stessa. Uno dei componenti fondamentali della struttura di ogni azienda è il capitale umano, le risorse umane.
Può accadere che l’azienda assume delle decisioni che comportano delle modifiche organizzative da cui discende la soppressione di un posto di lavoro e il conseguente licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente che occupava quel posto.
Facciamo alcuni esempi. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato giudicato legittimo dalla Cassazione in molti casi tra cui:
- esternalizzazione dell’attività: può accadere che una azienda che prima svolgeva internamente una certa attività decida di affidarla ad un soggetto esterno. In questo caso l’azienda può licenziare per giustificato motivo oggettivo i dipendenti che svolgevano quella attività e che non sono più necessari visto che tale attività sarà svolta da altri. L’esempio tipico è quello di Tizio, che svolge attività di pulizia dei locali presso l’azienda Alfa e che viene licenziato per giustificato motivo oggettivo poiché l’azienda Alfa affida la pulizia dei locali alla cooperativa Beta;
- automatizzazione di un processo: può accadere che l’azienda adotti una innovazione tecnologica che rende inutile una certa posizione professionale. Il caso tipico è quello di Tizio, addetto alla reception, che viene licenziato per giustificato motivo oggettivo poiché l’azienda acquista un centralino elettronico che rende in esubero la posizione di Tizio;
- inabilità totale alla prestazione: può accadere che un soggetto è assunto per svolgere una certa mansione ma nel tempo non possa più farlo. esempio tipico è quello dell’autista di mezzo che, per una patologia alla schiena, non può più guidare. In questo caso Tizio può essere licenziato per giustificato motivo oggettivo
Quando è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo?
La giurisprudenza della Cassazione afferma che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo, nei casi visti sopra ed in molti altri, a patto che la società rispetti una serie di regole:
- obbligo di repechage (o ripescaggio): l’azienda, prima di licenziare per giustificato motivo oggettivo il dipendente che è diventato in esubero, deve verificare la possibilità di adibire quel dipendente ad altre mansioni. Il lavoro, come detto, è un bene prezioso e dunque il licenziamento deve essere l’ultima carta, l’extrema ratio. se c’è la possibilità di far fare a quel dipendente altri lavori occorre farlo. Se ad esempio l’azienda licenzia Tizio per giustificato motivo oggettivo e subito dopo assume Caio per la stessa mansione o per altre mansioni che avrebbe potuto affidare a Tizio verrà dimostrato che l’obbligo di repechage non è stato rispettato e dunque il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di Tizio è illegittimo;
- rispetto dei criteri di scelta: nella scelta del dipendente da licenziare per giustificato motivo oggettivo l’azienda deve rispettare criteri di buona fede e, se ci sono più dipendenti che potrebbero essere licenziati per lo stesso motivo, occorre sceglierlo attenendosi ai seguenti criteri: carichi di famiglia; anzianità di servizio; esigenze aziendali [3].
L’azienda può licenziare per aumentare il profitto?
Per moltissimo tempo la Cassazione affermava che oltre a rispettare l’obbligo di repechage ed i criteri di scelta, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo poteva essere ritenuto legittimo solo alla base della riorganizzazione aziendale c’era una situazione di criticità nei conti, una crisi aziendale che imponeva alla società, ad esempio, di esternalizzare un servizio, eliminare una posizione lavorativa, ripartire le mansioni tra meno colleghi, etc.
Queste sentenze valorizzavano il fatto che il lavoro è un bene prezioso e quindi l’azienda poteva togliere il lavoro ad un dipendente solo se davvero necessario per risanare il bilancio aziendale o affrontare una situazione di crisi.
Di recente, però, diverse sentenze della Cassazione [4] hanno affermato che le ragioni inerenti all’attività produttiva, che possono legittimare il licenziamento per motivi economici, possono derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti: ciò poiché, in caso contrario, l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituirebbe un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo; inoltre si è considerato estraneo al controllo del giudice il fine dell’arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori.
In sostanza, secondo questo orientamento, il giudice non può mai entrare troppo dentro le decisioni dell’imprenditore che deve essere comunque lasciato in condizione di strutturare l’impresa nel modo più rispondente alle sue necessità.
Occorre però segnalare che queste sentenze non devono far pensare che oggi licenziare un dipendente per motivi economici sia del tutto libero. E’ sempre fondamentale infatti poter dimostrare in giudizio che la riorganizzazione posta alla base del recesso è stata realmente attuata (ad esempio provando che il servizio è stato realmente esternalizzato) altrimenti si rischia comunque di vedere giudicato illegittimo il licenziamento.
note
[1] Art. 36 Cost.
[2] Art. 4 Cost.
[3] Si tratta dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 L. n. 223/1991 per il licenziamento collettivo, ma adottati anche in caso di licenziamento individuale per motivi economici.
[4] Cass. sent. n. 25201/2016 e sent. n. 13015/2017.