Non so se questa voglia di attraversare il mare, non fermarmi e guardare oltre, dipende dal fatto che sono nato su un’isola. A cui sono molto legato, e verso cui, come tutte le cose a cui si è legati, sono anche critico, perché la vorrei diversa da come è. Nel periodo in cui ci ho vissuto, era un luogo privilegiato. La destinazione di persone aperte e generose che arrivavano spesso da lontano. Disponibili a dare, parlare, raccontarsi. Poi andavano via, scappavano e c’era questa sofferenza data dall’autunno, le giornate piovose e più solitarie. Da lì, forse, il desiderio di andare via, la curiosità di cercare altrove”.
Non so se questa voglia di attraversare il mare, non fermarmi e guardare oltre, dipende dal fatto che sono nato su un’isola. A cui sono molto legato, e verso cui, come tutte le cose a cui si è legati, sono anche critico, perché la vorrei diversa da come è. Nel periodo in cui ci ho vissuto, era un luogo privilegiato. La destinazione di persone aperte e generose che arrivavano spesso da lontano. Disponibili a dare, parlare, raccontarsi. Poi andavano via, scappavano e c’era questa sofferenza data dall’autunno, le giornate piovose e più solitarie. Da lì, forse, il desiderio di andare via, la curiosità di cercare altrove”.
Parte dunque da Ischia, dov’è nato e ha vissuto fino ai vent’anni, la vicenda umana e professionale di Leonardo Di Costanzo, cineasta tra i più sensibili e impegnati del panorama cinematografico italiano. In questi giorni alla ribalta per le vittorie ai premi più prestigiosi che chiudono la stagione con il suo film “L’intervallo”: dai Ciak d’oro (migliore opera prima e miglior produttore) ai David di Donatello (miglior regista esordiente). “Sono ovviamente molto contento – ha dichiarato a caldo Di Costanzo - ma ora mi trovo nell'imbarazzante situazione di dover spiegare a mia madre, a mio figlio, alla mia compagna, ai miei amici non del mestiere, che diamine di lavoro ho fatto in tutti questi anni...”
Classe 1958, laureatosi all'Università Orientale di Napoli con una tesi in Storia delle religioni, Di Costanzo si trasferisce già negli anni Ottanta a Parigi, col desiderio di continuare gli studi di antropologia. Si iscrive agli Ateliers Varan, scuola-laboratorio di cinematografia fondata nel 1981 dall’antropologo e regista francese Jean Rouch allo scopo di fare del “cinéma vérité”, cuneo indispensabile per indagare la realtà del mondo ex-coloniale. Un’ipotesi di racconto visuale che non conosce confini geografici, anzi, si alimenta della ricchezza multiculturale per diventare più libero, necessario e potente. “ Rouch ebbe un’idea geniale – rivela Di Costanzo - invece di andare a filmarli, disse, insegnamogli le regole che sono alla base del cinema; portiamo le telecamere, facciamo corsi di formazione per i giovani, e che siano loro a raccontare la trasformazione del paese in cui vivono o nel quale si trasferiscono. La prima esperienza in Mozambico andò bene, e ne seguirono altre, fatte nelle miniere in Bolivia o in Sudafrica durante l’apartheid. Il metodo non è cambiato. Si arriva con i macchinari, si insegnano i rudimenti del cinema e si aiuta la gente del posto a costruire un film, però il film lo fanno loro, e i materiali alla fine si lasciano là. Nel frattempo era nato un centro a Parigi dove passavano i ragazzi di questi paesi. Io ci entrai per caso, perché il ministero degli affari esteri dava i soldi solo per i paesi in via di sviluppo. Avevano pagato per un camerunense che poi non andò. Così feci i due corsi che c’erano allora, nell’87 e nell’88, e sei anni dopo sono entrato come insegnante”. A Tbilisi, Belgrado, Marsiglia, e poi in Marocco, Cuba, Sudafrica, Cambogia, Vietnam. Indagare la realtà anziché spettacolarizzarla, spezzare i riflessi immediati di coloro che vogliono fare questo lavoro e sono cresciuti con la tv, con quel modo di realizzare un’inquadratura che è sempre lo stesso.
Negli ultimi 20 anni l’avventura professionale di Leonardo Di Costanzo ha dato i suoi frutti più fecondi nel genere documentaristico, di cui è riconosciuto come uno dei più importanti esponenti europei, ospitato e premiato nei festival di cinema di tutto il mondo. Ricordiamo “Prove di Stato” (1999), con cui affronta il tema della latitanza delle istituzioni nel comune di Ercolano, seguendo da vicino Luisa Bossa, ex preside di liceo eletta sindaco dopo Mani Pulite; “A scuola” (2003), spaccato di vita scolastica in un istituto delle medie inferiori di Napoli raccontato dal punto di vista degli insegnanti; “Odessa” (2006, realizzato con Bruno Oliviero), sulla nave mercantile sovietica che per anni è stata ferma al porto di Napoli con il suo equipaggio, smarrito e apolide, costretto a marcire all’ombra del Vesuvio. E ancora “Cadenza d’inganno”, il tentativo di filmare la vita turbolenta di un adolescente che improvvisamente scompare, sottraendosi al progetto e interrompendo il film.
Quasi un presagio alla svolta, affatto sorprendente, che conduce Leonardo al cinema di finzione. “A un certo punto – spiega - mi sono reso conto che con i documentari non riuscivo più a raccontare quello che volevo. Mi sembrava che fosse arrivato il momento giusto per affidarmi a personaggi “esterni”. Ho lasciato però intatta la mia curiosità nei confronti di quella dimensione inesauribile di ispirazione che è il reale, con enorme fiducia nelle sue infinite possibilità narrative. Basta mettersi nel punto giusto per riuscire a coglierle.”
Con “L’intervallo”, scritto dallo stesso Di Costanzo con Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente, arriva la consacrazione. Prima alla Mostra del cinema di Venezia (dove la critica lo acclama definendolo “il più bel film italiano del festival”) e poi ai Premi David di Donatello (i nostri Oscar), dove il cineasta ischitano si è aggiudicato la prestigiosa statuetta come miglior regista. Esordiente.
La pellicola racconta la lenta ma emozionante costruzione di un legame inatteso, uno spaccato temporale ed emotivo (“l’intervallo” del titolo) nella vita di due adolescenti della periferia napoletana che si prendono una pausa da quel mondo che distrugge la loro identità e forza creativa. Salvatore, giovane venditore ambulante di granite è costretto per un giorno a far da carceriere a Veronica, una quindicenne che ha trasgredito le regole non scritte della malavita. Per una manciata di ore i due finiscono per conoscersi e fidarsi l’una dell’altro, ridendo e litigando come ci si aspetta da due ragazzi della loro età. Tra sogni e speranze, inserti e divagazioni, confessioni e paure disseminate sui sentieri di un ex ospedale psichiatrico in rovina, Leonardo Di Costanzo costruisce un quadro agghiacciante e poetico sull’assurda violenza operata dalla società sull’individuo, lavorando su un piano di realismo e su un’assunzione di responsabilità che presuppongono una rabbia interiore (e forse un dolore) straordinari. Un film urgente, libero, tassello inedito di un immaginario narrativo di disperata vitalità come spesso quello partenopeo riesce a essere e proporsi. E’ il cinema italiano che non ti aspetti più, un piccolo gioiello a dimostrazione che anche nel nostro paese, quando si vuole, si può fare del buon cinema, degno di essere esportato (e amato) anche all’estero.
Malgrado abbia lasciato Ischia diversi decenni fa, Di Costanzo torna periodicamente sull’isola. Soprattutto a Barano, dove vivono i suoi familiari. Nell’ottobre scorso la presentazione del suo ultimo film in una serata-omaggio organizzata dal Circolo G. Sadoul in collaborazione con l’Istituto Luce e il cinema “Delle Vittorie” di Forio. Un’occasione per riabbracciare nuovi estimatori e vecchi amici. Da loro le parole più affettuose: “A chi, tra di noi, ha avuto gli occhi per vedere”.