I ritrovamenti archeologici di Punta Chiarito sono molto significativi per l’archeologia e la storia antica, ma anche molto rappresentativi per l’identità, le origini degli isolani e di quanti hanno un legame con il mare.
Visitando il Museo Archeologico di Pithecusae in Lacco Ameno, fui molto colpita dalle informazioni fornite da un pannello che si trova nella sala VI sulla parete alla quale sono accostati un unico reperto proveniente dagli scavi di Punta Chiarito e quattro rinvenuti in zona. Per questo mi recai a Panza per visitare il sito e successivamente a Napoli per vedere i numerosi reperti custoditi nell’apposita sala del Museo Archeologico Nazionale. Rimasi stupita dalla quantità e dalla qualità degli oggetti esposti. A chi erano appartenuti? Chi frequentava il promontorio nel VI secolo a.C.? L’argomento mi sembrò tanto interessante, in particolare dal punto di vista storico, che decisi di approfondirlo. Dalla frequentazione di musei e dalle osservazioni di una turista ad Ischia è dunque nato questo studio, qui presentato in forma ridotta e con alcune modifiche.
1. Il sito archeologico di Punta Chiarito
A Sud dell’isola d’Ischia, ad Ovest del Monte S.Angelo, si protende in mare Punta Chiarito, un promontorio spoglio e reso impervio da frequenti frane che interessano sia il costone orientale, la Cava Fumerie, sia quello occidentale a strapiombo sulla Baia di Sorgeto, nota per le sorgenti che mescolano caldissime acque termali a quelle del mare. In questa area si trova il sito archeologico che non è accessibile ai non addetti ai lavori, ma è ben visibile per chi proviene da Via Fumerie (a NE dello scavo, da Via Succhivo) e per chi proviene da Panza (a NO dello scavo, Via Casa Polito/Sorgeto) dal vialetto che conduce al Residence Punta Chiarito. Esso è situato ad una quota alquanto inferiore a quella media del promontorio (circa 50 m. sul livello del mare)1 e molto più in basso della struttura alberghiera che occupa la sommità del Chiarito. Il punto più alto raggiunge i 72,4 m., il più basso 382. Bisogna in proposito tener presente che tutta la regione costiera tra la spiaggia dei Maronti e Punta Imperatore è stata soggetta, per effetto del bradisismo ascendente, ad un sollevamento di m. 15-303. In particolare, per la zona del Chiarito l’innalzamento costiero, avvenuto in epoca romana, viene indicato in circa m. 204. L’insediamento messo in luce dagli scavi è d’età preromana: si doveva trovare quindi ad un livello sul mare almeno 20 m. inferiore a quello attuale e molto più vicino alla battigia, all’approdo marittimo. Le trasformazioni geofisiche nel corso dei secoli hanno contribuito a modificare il paesaggio in modo tale che «quasi del tutto fallaci sarebbero le osservazioni suggerite dalle attuali condizioni del luogo»5. Oltre alle eruzioni vulcaniche, ricorrenti fino al 1302 d. C., ai terremoti e ai fenomeni d’erosione costiera causati dal vento e dal mare, il bradisismo ascendente non è la sola trasformazione geofisica che interessa la zona; tutto il territorio a Sud di Panza è soggetto a ricorrenti nubifragi che causano smottamenti di terreno ed hanno reso nei secoli quanto mai instabile la morfologia costiera6.
2. Gli scavi
Nel 1988, nel corso di un sopralluogo nella Cava Fumerie, due vigili urbani del Comune di Forio incaricati di verificare la situazione di dissesto idrogeologico della zona in seguito ad un nubifragio recuperarono alcuni frammenti di anfore grezze. La Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta intervenne nell’ottobre 1992 con una prima campagna di scavi che, interrotta nel novembre, venne ripresa con la buona stagione l’anno successivo7. Nel ’94 furono resi noti i primi risultati8; nel ’96, mentre era ancora in corso una terza campagna di scavi, venne presentata al pubblico una significativa esposizione di reperti nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli9 alla quale fece seguito nel dicembre ’97 l’allestimento delle sale dedicate a Pithecusae (124 e 125) al primo piano dello stesso edificio10. Nel ’98 furono resi noti ulteriori particolari sull’esito degli scavi11; nel ’99, infine, nella sala VI del Museo Archeologico di Pithecusae in Lacco Ameno (Ischia) furono collocati quattro reperti provenienti dal Chiarito (sporadici: due anfore da trasporto, una brocca e una scodella di produzione locale) e un grosso blocco tufaceo rinvenuto nel sito archeologico12. Un pannello con fotografie e grafici illustra gli scavi eseguiti sul promontorio, che vennero ripresi, con interruzioni, dalla fine del ’99. Dalla primavera 2004 sono in corso nuovi scavi; non ne è stato ancora reso noto l’esito. Il 23 marzo 2004 il Comune di Forio e la Soprintendenza ai Beni archeologici di Napoli e Caserta hanno firmato un protocollo d’intesa finalizzato alla realizzazione, entro il 2008, del Parco Archeologico del Chiarito nell’area del sito. La stampa locale (Il Golfo, 25.03.04) informa che allo scopo sono disponibili finanziamenti per 2,500 milioni euro.Il 21 febbraio 2005 la Soprintendenza archeologica di Napoli e Caserta e il Comune di Forio hanno firmato un nuovo protocollo d’intesa che prevede in tempi brevi e con il coinvolgimento della Regione Campania, il consolidamento del costone della cava Fumerie, il proseguimento degli scavi, l’elaborazione di un progetto per il Parco Archeologico e l’esposizione a Forio di reperti che ora si trovano a Napoli.
3. Una pagina straordinaria della storia d’Ischia
Una frana, una colata di fango dello spessore di almeno tre metri, che seppellì il luogo oggetto degli scavi archeologici, ha preservato dalla rovina del tempo una straordinaria pagina della storia d’Ischia. Il carattere eccezionale del sito di Punta Chiarito è costituito dal fatto che la catastrofe ha sigillato un insediamento in piena attività, come avvenne a Pompei ed Ercolano in seguito all’eruzione del Vesuvio, ma in epoca molto più antica. Cercheremo ora, in base alle evidenze emerse dagli scavi, di ricostruire un profilo degli arcaici abitanti del Chiarito dei quali non sappiamo se siano stati travolti, come persone fisiche, dalla valanga di fango o se siano riusciti a sopravvivere in mare alla catastrofe terrestre. Gli scavi, infatti, finora non hanno restituito traccia di resti umani. Rimosso un primo strato di terreno vegetale (circa mezzo metro), sotto un banco detritico di vario spessore, ma non inferiore a 3 metri, gli archeologi scoprirono un paleosuolo databile, in base ai reperti ceramici, dalla fine del VII sec. a. C. alla metà circa del VI sec. a. C.13. Al di sotto di questo, coperto da poco meno di un metro di materiali vulcanici, giace un altro paleosuolo, databile, sempre in base a frammenti ceramici, al terzo quarto dell’VIII sec. a. C.14. Un’eruzione vulcanica, avvenuta nel VII sec. a. C. o poco dopo, aveva dunque sepolto un primo insediamento risalente al 750-730 a.C. Al più tardi alla fine del VII sec., qualcuno occupò nuovamente quel punto della costa, ricostruì le strutture che erano state abbandonate già prima dell’eruzione e vi s’insediò, finché non fu sorpreso, verso la metà del VI sec. a. C., dalla frana causata da un nubifragio o da un terremoto15. Si aggiunge così ulteriore prezioso materiale a quello restituito dal territorio di Lacco Ameno (scarico dell’Acropoli, stipe di Pastola) a colmare la carenza di reperti del VII-VI sec. provenienti dalla necropoli di Pithecusae (San Montano, Lacco Ameno).
4. L’insediamento del secolo VIII
Dell’insediamento più antico restano due tratti di muri a secco, uno sul ciglio della Cava (a NE) ed uno nello spazio a NO dello scavo. A ridosso del costone, sotto il vialetto che porta verso l’albergo costruito sulla parte più alta del promontorio, si trovano, con orientamento quasi parallelo alla strada, i resti di una struttura a pianta ovale (m.7x4, superficie circa 27mq) che poggiava su un cinto murario di pietre di tufo, risalente alla stessa epoca (VIII s. a. C.) dei muri situati nello spazio esterno. I materiali del paleosuolo più antico, pubblicati16 con la catalogazione A1-A25 ed esposti nella vetr. 1 della sala 125 del Museo Archeologico Naz. di Napoli, sono frammenti ceramici d’importazione (attica, corinzia ed etrusco-laziale) e frammenti di suppellettili domestiche o di contenitori di fabbricazione locale. Tali reperti, insieme ai resti di un focolare più antico17 che era all’interno dei resti murari della struttura ovale, hanno fatto ritenere che l’edificio avesse sin dalle origini una funzione abitativa. Nella stessa Pithecusae, a Mazzola (Lacco), nell’officina del bronzista (VIII s.), esistevano strutture analoghe18.
Legenda
1 Italiano 1994, pp. 167-8.
2 Rilievo aerofotogrammetrico dell’Isola d’Ischia (Alisud1968) in: Gialanella 1994b, p. 170.
3 Buchner 1986, pp. 260 e 271, n. 13.
4 Vd. n. 1.
5 De Caro 1994, p. 37.
6 Buchner Niola 1965, p. 100 n. 1.
7 Gialanella 1994b, p. 170 n. 4.
8 Gialanella 1994b, pp. 170-204; De Caro 1994,37- 45.
9 Gialanella 1996b, pp. 259-274.
10 Gialanella 1996a, pp. 145-155 con fotografie a colori della ricostruzione digitale tridimensionale della capanna (p. 154, fig. 12), delle vetrine 1,2 (p. 153, figg. 10,11) e 7 (p. 152, fig. 9).
11 De Caro - Gialanella 1998, pp. 337-353 e 408-413.
12 De Caro - Gialanella 1999, pp. 28-31.
13 De Caro - Gialanella 1998, p. 338.
14 De Caro - Gialanella 1998, p. 340.
15 De Caro - Gialanella 1999, p. 28; De Caro - Gialanella 1998, p. 337 e p. 338. L’ipotesi di un nubifragio è più verosimile.
16 Gialanella 1994, pp. 182-185 e 200.
17 De Caro - Gialanella 1998, p. 342.
18 De Caro - Gialanella 1998, p. 341; Gialanella 1994b, p. 180.
5. L’insediamento del VII-VI sec. La capanna sigillata dal fango
Molto più numerose sono le evidenze archeologiche relative agli abitanti del Chiarito che furono sorpresi dalla frana. Innanzitutto, come già detto, è palese che riattivarono una struttura preesistente, già distrutta da fenomeni vulcanici e abbandonata. La capanna della seconda fase forse era intonacata all’interno, almeno in parte19. L’ingresso situato sul lato lungo E, in direzione del Monte Epomeo, con tutta probabilità era chiuso da una porta20. All’interno della struttura ovale furono rinvenuti tre coppi e sul muro dell’abside SE (direzione S. Angelo) una tegola. Probabilmente il tetto era di canne e fascine, ma rafforzato nella parte centrale (escluse cioè le absidi) con tegole e coppi21. Nello spazio prospiciente l’ingresso e su una banchina di pietre a secco e ciottoli levigati, alta circa 1 m. e orientata a NO, gli occupanti l’arcaico insediamento svolgevano attività all’aperto. Il cortile sembra essere stato privo di tettoia22; verosimilmente sfruttava l’ombra in parte delle strutture murarie, in parte della vegetazione.
6. Materiali rinvenuti all’interno. La dispensa, gli strumenti da lavoro, il vasellame d’uso comune
L’interno della capanna era diviso da un tramezzo in due ambienti: uno a NO, dove si trovava l’ingresso, più ampio e molto ingombro, era adibito a magazzino/deposito di contenitori per derrate alimentari e di ceramiche d’uso domestico di vario tipo; nell’altro, con abside a SE, si trovava il focolare, una piattaforma rettangolare rialzata, fatta di terra e rivestita di uno strato di cenere vulcanica. Sulla sua superficie e all’intorno giacevano carboncini e abbondantissimi gusci di patelle. Sul piano del focolare furono rinvenuti anche una piccola pentola (chytra), una lucerna e un oggetto esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (C193, vetr. 7) con dicitura “crogiolo”. Sul piano di calpestio, di semplice terra battuta, gli scavi misero in luce numerosi attrezzi da lavoro: ami da pesca bronzei di varie dimensioni, piombi per reti e una verga in piombo (l. cm. 15,5) con occhielli alle estremità. La maggior parte degli strumenti è in ferro: un’accetta, una doppia ascia a tagli ortogonali, una lama ricurva a un solo taglio (machaira), una punta di lancia, una roncola, un falcetto, due uncini, un coltello, un grosso chiodo, delle verghette fuse insieme dall’ossidazione e una pinza per carbone. In argilla cruda sono alcuni pesi piramidali; altri circolari in pietra. All’interno dell’edificio si trovava anche una lucerna d’argilla triangolare a tre luci e una borraccia in ceramica non depurata. Accostati al muro dell’abside Sud c’erano un recipiente per liquidi (olla stamnoide di fattura locale) e un fornello portatile. I contenitori per provviste solide e liquide, alcuni dei quali interrati e di grandi dimensioni, sono in parte di fabbricazione locale, in parte d’importazione: etruschi, chioti, corinzi.
Nella ricostruzione della capanna esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli se ne contano ben 18; ad essi vanno aggiunte due anfore grezze locali di tipo B e un anforone grezzo trovati all’esterno e infine le 8 anfore (con 7 coperchi) di fabbricazione locale esposte nella vetrina 4. Non è noto se siano state eseguite analisi su eventuali tracce del loro contenuto; verosimilmente si trattava di «olio importato dall’Attica», «vino, olio, cereali, legumi, pesce salato, sale e, naturalmente, acqua»23. Forse si può aggiungere: pesce marinato, pesce essiccato e salsa di pesce, miele, olive e prodotti caseari, forse resine vegetali, le provviste meno deperibili che erano alla base dell’alimentazione dei greci nell’antichità. Nella capanna fu rinvenuta anche abbondante ceramica da tavola e da cucina di fabbricazione locale e d’uso comune. Solo tra quella ricostruita integralmente ed esposta nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli si contano: 3 boccali, 10 piccoli recipienti per liquidi (olpe), 4 coppe, 7 scodelle (lekanai), 4 brocche, 3 scodelloni e 3 bacili d’impasto, 13 pentole da fuoco (chytrai), 1 brocca da vino (oinochoe), 1 da acqua (hydria), altri due recipienti per liquidi o vivande (1 stamnos, 1 olla stamnoide), 1 scodellina, 2 piccoli vasi contenenti oggetti minuti (ami, conchiglie, etc.) e il fornello portatile accostato al muro dell’abside di SE con la vicina olla. In prossimità dell’ingresso si trovava anche una base fittile per louterion (lavabo).
Legenda
19 Sono stati trovati frammenti di argilla su cui poggiava un’incannucciata già montata su telaio (A 181): Gialanella 1994b, p.181.
20 Vi si trovava un blocco di tufo con un incavo che potrebbe essere l’alloggiamento di un cardine; vd. De Caro - Gialanella 1998, p. 340.
21 De Caro-Gialanella 1998, p. 342.
22 De Caro-Gialanella 1998, p. 345.
23 Gialanella 1994b, p. 182 («olio importato dall’Attica »); De Caro - Gialanella 1999, p. 29 («vino, olio, cereali, legumi, pesce salato, sale e, naturalmente, acqua»).
7. Le ceramiche di fattura pregiata
Di uso non comune, di forma e fattura pregiata, sono invece alcuni reperti ceramici d’importazione verniciati di nero rinvenuti nell’ambiente destinato a deposito (vetrina 2): un cratere laconico, 2 coppe ioniche, 2 scodelle (lekanai) corinzie biansate. Nella stessa vetrina sono custodite due grattugie di bronzo che attestano il consumo di prodotti caseari e un bacino di bronzo ad orlo perlato, un unicum tra i reperti pitecusani. L’insieme è stato definito «vasellame fine da mensa», «corredo da banchetto», «segni del lusso aristocratico »24. Di un elevato tenore di vita sarebbero indicativi anche un vasetto biansato (stamnos) di fabbricazione probabilmente greco-orientale, un flaconcino per balsami (lekythos) samio, un piccolo recipiente (pisside) ionico, un altro globulare per unguenti (aryballos) anche ionico. Tra gli oggetti d’importazione si registrano infine due coppe di bucchero grigio orientale, un recipiente d’uso incerto (cothon, definito nella didascalia del Museo Archeologico Nazionale di Napoli exaleiptron, unguentario) corinzio, due lucerne e la già menzionata borraccia di fabbricazione non certa, un’anfora (etrusca?) con un’ansa a doppio bastoncello, un’anfora grezza e, infine, il collo di un’anfora da trasporto corinzia.
8. Materiali rinvenuti all’esterno
Ancora più sorprendenti sono i reperti rinvenuti nella zona antistante la capanna; in primo luogo un blocco di tufo bianco del Monte di Vico (proveniente quindi dall’acropoli di Pithecusae, dall’attuale territorio di Lacco Ameno) del peso 300-350 kg., circolare con diametro di circa un metro. Quando avvenne la catastrofe, la grossa pietra era in lavorazione per ricavarne una vasca: sul bordo infatti poggiava una doppia ascia di ferro a tagli ortogonali, usata per scalfire il tufo; intorno giacevano schegge dello stesso materiale. Nella zona della banchina si trovavano altri strumenti:
numerosi ami da pesca in bronzo, anche di notevoli dimensioni (7-9 cm.), un’asticciola di piombo a sezione circolare con due occhielli alle estremità, simile a quella trovata all’interno della capanna, un uncino in ferro, lungo cm. 9,4. Questi attrezzi da lavoro e da pesca vanno aggiunti a quelli rinvenuti nella capanna, compresi quelli custoditi in due piccoli recipienti, uno dei quali (C 35) conteneva un oggetto d’osso che potrebbe essere un ago per reti da pesca, un chiodo di ferro e un grosso amo di bronzo; l’altro (C 70) custodiva conchiglie, piccoli ami e piombi per reti da pesca. Vicino alla banchina, ad Est, si trovano almeno quattro lenti di terra bruciata, alcune delle quali circondate da pietre e interpretate come rustici focolari; contenevano frammenti di carbone e gusci di molluschi, soprattutto patelle, «circostanza questa che permette di interpretare alcune di queste lenti di terra come scarichi dei rifiuti della casa»25. Nella zona esterna alla capanna c’era anche un anforone grezzo, probabilmente destinato a contenere dell’acqua. Sul terreno giacevano anche numerosi ciottoli da spiaggia, una vertebra di pesce e poche ossa di
animali domestici26. Tra ami e piombi gli scavi restituirono anche il fondo di un piccolo vaso grezzo (A181) che conteneva 6 grumi di rame puro27 di peso diverso. Sulla banchina, infine, vicino alla vasca in lavorazione, giacevano un corno di cervo «con asta segata alla sua estremità anche trasversalmente» e dei piccoli cilindri di corno con inserita all’interno un’asticella di ferro, identificati come rivestimenti per apici di pugnale o di fibule ad arco28.
9. Le fosse di coltivazione
A NO della capanna venne eseguito un saggio negli strati vulcanici che precedevano il paleosuolo dell’insediamento più antico. Lo scavo mise in evidenza tre fosse; la più profonda ha una sezione rettangolare, le due più piccole triangolare. La più grande, quella a sezione rettangolare, è collegata alla vicina da un solco poco profondo; ai lati di quest’ultimo vennero individuate delle piccole fosse circolari29. Le relazioni sugli scavi non forniscono indicazioni sulla profondità delle fosse; dal grafico e dai dati stratigrafici si presume che la più ampia sia profonda circa 70 cm., le altre 30- 40 cm. Le analisi paleobotaniche effettuate sui campioni di terreno prelevati dalle fosse e da altri tratti del relativo paleosuolo30 propendono a considerare l’unica traccia di vinacciolo disponibile come appartenente a una specie, probabilmente locale, intermedia tra la vite selvatica e quella coltivata, ma con caratteristiche della vite selvatica; ciò sembrò confermare l’ipotesi che interpretava le fosse evidenziate dal saggio come fosse di coltivazione della vite e di alloggiamenti per i tutori. Otto cariossidi relative a cereali (5 hordeum vulgare, 2 triticum aestivum, 1 triticum dicoccum) e 2 endocarpi carbonizzati d’ulivo (che, di per sé, non dimostrano affatto la coltivazione in loco dell’ulivo) sembrarono sufficienti per individuare nella capanna una fattoria che sarebbe stata abitata da un «piccolo nucleo
familiare, un uomo, la sua donna e uno o due figli (almeno potenziali)». Il capofamiglia sarebbe stato un individuo con «abilità manuale considerevole», perché impegnato nell’agricoltura, nella pesca, nell’attività di scalpellino e d’intagliatore; la sua donna sarebbe stata dedita al focolare, alla cucina, alla tessitura ed eventualmente, insieme ai bambini, alla raccolta di molluschi, di fascine e forse alla cura dell’orto31.
Legenda
24 Gialanella 1994b, p. 181; De Caro-Gialanella 1998, p. 352; De Caro-Gialanella 1999, p. 29.
25 De Caro - Gialanella 1998, p. 346.
26 Gialanella 1994b, p. 177.
27 Gialanella 1994b, p. 180.
28 De Caro - Gialanella 1998, p. 345. Didascalia C192 nella vetrina 7 della sala P. Chiarito del Museo Arch. Naz. di Napoli.
10. Il soppalco e il focolare
Lo spazio disponibile nella capanna però è davvero insufficiente per ospitare gli abitanti nella zona del focolare dove si sarebbe trovato anche il telaio; si ipotizzò allora un soppalco, sorretto da robusti pali e collocato sopra il deposito/dispensa32. Tale ricostruzione che ha un unico precedente, peraltro solo ipotetico e relativo a un magazzino, non a un’abitazione33, crea alcune perplessità, sia per quanto riguarda la staticità dell’edificio34, sia perché la quantità e il volume degli oggetti stipati nel deposito/dispensa sono tali e tanti che, prima d’ipotizzare la costruzione di un soppalco, sarebbe opportuno quantificare l’altezza dell’edificio e la riduzione di cubatura dell’ambiente destinato a deposito che il soppalco comporta se costruito per uso abitativo, nonché il volume degli oggetti in esso contenuti. Va notato, infine, che l’ingresso si trova in corrispondenza del vano utilizzato come deposito, non dello spazio che ospitava il focolare e l’area considerata «appartenente alla sfera femminile». Sorprende in tale ricostruzione la promiscuità, del tutto inconsueta in ambito greco nel VI sec. a. C., tra l’ambiente muliebre e quello del lavoro maschile, indicato chiaramente dagli attrezzi utilizzati per la pesca, la lavorazione del legno e del tufo che si trovavano nello stesso spazio all’interno della capanna.
11. Il contrasto tra il vasellame pregiato e il corredo domestico d’uso comune
Da nuovi scavi gli archeologi sperano di rinvenire nelle vicinanze strutture abitative (che ipotizzano, sulla base di alcuni reperti sporadici, essere almeno tre), tali da confermare l’ipotesi di un insediamento agricolo e da offrire alla famiglia del versatile Pitecusano del VI secolo a.C. un alloggio più confortevole e meno anacronistico. Non pochi problemi suscita invero il contrasto tra il «lusso aristocratico» riconosciuto agli abitanti e le condizioni abitative che sono molto più simili a quelle dei villaggi pregreci dell’età del ferro che a quelle attestate nell’VIII e VII sec. a. C. a Mazzola (Lacco Ameno) nella molto più articolata casa/officina del bronzista35. Per fornire una spiegazione agli interrogativi che pone il contrasto tra il vasellame pregiato d’importazione ed il corredo domestico di fattura comune e locale, nonché la presenza di attrezzi da lavoro, testimoni di attività lavorative manuali, vennero proposte le seguenti interpretazioni:
1. «Pur eterogeneo e raccogliticcio nella sua formazione, il corredo da banchetto mostra chiaramente l’avvenuta adesione anche di gruppi sociali di rango inferiore come questo (pescatori e agricoltori, come vedremo) all’ideologia dei ceti dominanti»36. Inoltre: «Il rifornire di prodotti agricoli e di pesce (forse anche salsa di pesce) la città e le cambuse delle navi era un’attività che permetteva non solo di potersi concedere dei consumi pregiati, ma di coltivare uno stile di vita come quello alluso dal banchetto, che altrove era appannaggio di aristocratici di maggior lignaggio, con grandi estensioni di terra e servi che la coltivavano »37.
2. Che la capanna fosse abitata da un contadino/colono e visitata occasionalmente dal ricco proprietario a cui sarebbe appartenuta la fattoria.
I balsamari, gli unguentari ecc. potrebbero essere appartenuti alla moglie di quest’ultimo38.
Legenda
29 Gialanella 1994b, pp. 170-172; De Caro-Gialanella 1998, p. 338.
30 Coubray 1994b, pp. 205-209, spec. p. 208 per la vite.
31 De Caro - Gialanella 1998, pp. 350 e 352; Gialanella 2003, pp. 181-2.
32 De Caro - Gialanella 1998, p. 350.
33 Orlandini 1986, p. 21; De Caro - Gialanella 1998, p. 350 nn. 45 e 41.
34 Greco 1998, p. 411.
35 Nell’officina del bronzista è evidente la distinzione tra il thalamos, la zona riservata alle donne, e gli ambienti utilizzati per il lavoro maschile. Vd. Tempesta 2002, pp. 1127 e 1133 (con bibliografia). Sulla casa del bronzista vd. anche De Caro - Gialanella 1998, p. 341 spec. n.10.
36 De Caro - Gialanella 1999, p. 29.
37 De Caro - Gialanella 1998, pp. 351 e 352.
38 De Caro - Gialanella 1998, pp. 351 e 352. Va osservato tuttavia che l’esistenza di un individuo «abbiente che vive però solo saltuariamente in campagna, derivando da fonti economiche diverse (il possesso agrario, i commerci, la guerra, la pirateria)» il suo stile di vita “aristocratico” non è altrimenti attestata a Pithecusae, nell’isola in cui la grande proprietà terriera, per ragioni geomorfologiche, non esisteva e la necropoli non ha restituito armi, vd. n. 59. Tale profilo è invece possibile a Cuma.
12. Una postazione di pirati?
I «consumi pregiati» però non sono la sola aporia che rende dubbia l’identificazione dell’arcaica dimora come una fattoria. Due studiose dell’Università Statale di Milano39 hanno recentemente contestato la possibilità d’individuare nel promontorio del Chiarito un insediamento rurale.
Giustamente osservano che la natura del suolo (terreno tufaceo carente di acqua potabile e non adatto alla coltivazione di cereali) e le condizioni ambientali e climatiche (venti, salsedine), inoltre la quantità ridottissima dei semi ricavati dai campioni di terreno, rendono assai improbabile uno sfruttamento agricolo del territorio: l’insediamento sul promontorio doveva avere carattere stagionale. Propongono quindi una interpretazione completamente diversa: le provviste, i grandi recipienti per la raccolta dell’acqua piovana, gli attrezzi di ferro individuati come “armi”, la posizione panoramica del Chiarito dal quale sono ben visibili Capri e la Punta Campanella (Sorrento), concorrerebbero a far individuare nella capanna una postazione di pirati. Una vedetta, dall’alto del promontorio avrebbe scrutato il tratto di mare a Sud dell’Isola d’Ischia con lo scopo di avvistare le imbarcazioni mercantili provenienti da SE per avvertire i complici appostati nell’insenatura sottostante, pronti ad aggredire le imbarcazioni costrette a ripararvisi sospinte da fortissimi venti di Sud-Ovest. La presenza di donne nel covo dei pirati viene messa in dubbio, a meno che non si voglia pensare a schiave, rapite in seguito ad escursioni piratesche. I pesi di argilla non cotta, già interpretati come pesi da telaio, sarebbero stati usati non per tessere la tela vicino al focolare, ma per la lavorazione e manutenzione delle reti40.
Occasionalmente i pirati si sarebbero dedicati alla pesca. Gli oggetti “anomali”, come il “corredo da banchetto”, il bacino di bronzo, il corno di cervo, i grumi di rame, forse le stesse provviste, non sarebbero altro che prede, un bottino rapinato o incamerato come dazio per il proseguimento della navigazione. Il rinvenimento di “armi”, p. es. la cuspide di lancia e la “spada”, ben si accorderebbe con l’ipotesi della presenza di aggressori; l’attrezzatura da pesca avrebbe costituito un’ulteriore risorsa dei rapinatori del mare per procurarsi del cibo.
L’ipotesi è affascinante e concorda con la fama di pirati dei Cumani e dei Pitecusani41; si inserisce con piena giustificazione in un contesto storico in cui la pirateria appare inscindibile dalla navigazione e dai traffici commerciali42. Ha inoltre il merito di aver ricondotto l’interpretazione del sito ad un contesto marittimo, molto più verosimile, data la posizione e la quantità di reperti relativi alla pesca, nonché di aver riconosciuto il carattere stagionale dell’insediamento.
13. L’ipotesi della postazione di pirati è insostenibile
Anche questa ipotesi però presenta alcuni elementi non convincenti. Innanzitutto parte da un presupposto errato e cioè che la postazione fosse situata «sulla sommità di una punta rocciosa che si protende in mare (107 m. ca. s.l.m)»43. In realtà il livello massimo, come già detto, è di 72,4 m. s.l.m., all’altezza del bar del Residence Punta Chiarito. Il sito archeologico non si trova sul promontorio, ma al suo attacco, sul costone occidentale della cava, una decina di metri sopra il livello più basso (38 m.) che si trova in fondo alla cava, e qualche metro sotto il vialetto (52 m. circa s.l.m.) che conduce al Residence. Tenendo conto del sollevamento bradisismico della costa meridionale dell’isola che nella zona del Chiarito, come già detto, è stato quantificato in circa 20 m..44, la capanna si doveva trovare ad una quota di gran lunga inferiore a 107 m. s.l.m., inferiore anche ai 38 m. dell’attuale livello più basso, vicina all’approdo marittimo e alla battigia.
Molto più ragionevole sarebbe stata invero una vedetta sul Monte S. Angelo, dove oggi si trova il rudere della Torre S. Angelo (m. 104 s.l.m.)45, che però è molto esposto sia allo scirocco, sia al maestrale. Persino il più maldestro dei diportisti si guarderebbe bene, in caso di forti venti, dall’accostarsi al Monte S. Angelo e sicuramente, conoscendo la costa ed i fondali e a maggior ragione non conoscendoli, dal navigare sottocosta. Non è credibile che, in presenza di fortissimi venti di mare, un navigante greco del VI sec. a. C. alla guida di un mercantile46, dopo aver osato e saputo affrontare il mare aperto dall’Egeo, superato lo stretto di Messina e traversato il Tirreno, si sia avvicinato alla costa meridionale d’Ischia per ripararsi da venti provenienti da Sud o Sud Ovest. Chi viene sorpreso da una tempesta prima di doppiare S. Angelo, non si avvicina né alla costa di Cava Grado, né al Chiarito47, ma si affretta a “girare al largo”, come si dice comunemente con immagine consolidata dal gergo nautico, per superare in mare aperto la vicinissima Punta Imperatore, oltre la quale troverà riparo dai venti del quadrante meridionale e un buon approdo nella Baia di Citara (Forio)48.
La caratteristica dei pirati è non la stanzialità, ma la mobilità. Gli equipaggi delle navi mercantili viaggiavano armati per difendersi da eventuali aggressori.
Legenda
39 Cantarelli - De Francesco 2003, p. 37-54.
40 Cantarelli - De Francesco 2003, p. 45. In realtà mancano informazioni sulla tessitura delle reti che veniva eseguita non facendo uso di un telaio, ma con aghi, forse in legno, d’osso o metallici
con le estremità a forcina, come quelli in uso oggi. I pesi di argilla trapezoidali erano applicati alle reti, in particolare per la pesca a strascico. Sull’argomento v. Buchholz 1973, p. 176 n. 674.
41 Thuc. 6.4.5 (pirati cumani). Vd. Monti 1991, p. 307 che per primo suggerisce, riferendo le prime scoperte sul Chiarito, la presenza di pirati; vd. anche Monti 1996, p.10; Cantarelli - De Francesco 2003, p. 43.
42 Mele 1979, p. 20; Ampolo 1994 pp. 29-35
43 Cantarelli - De Francesco 2003, p. 42.
44 Vd. nn. 1 e 4. Il sito geologico, non quello archeologico (di cui nelle relazioni di C. Gialanella non si indica l’altitudine) è ubicato, secondo A. Italiano, «a una quota media di ca. 50 m. s.l.m. L’edificio vulcanico del Chiarito, ergendosi per ulteriori 20 m. circa, separa il sito dallo strapiombo della battigia e lo difende dai venti meridionali». La formazione detritica (fango) si sovrappone a quelle vulcaniche con spessore variabile fino a 7 m.
14. Un dato certo: la pesca
I reperti del Chiarito, oltre alla cronologia, forniscono un dato certo: la capanna era frequentata non da uno, ma da più pescatori. Osservando attentamente i reperti in ferro custoditi nelle vetrine 1 e 7 della sala Chiarito del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, notiamo che non si tratta di armi, ma di strumenti di lavoro: C164 non è una spada, ma una machaira, un coltellaccio ad un solo taglio, ricurvo dalla parte della lama, come quello brandito dal pescivendolo che affetta un tonno nella raffigurazione del cratere siceliota del Museo Mandralisca a Cefalù49.
Strumenti di lavoro sono anche gli ami di bronzo che per tipo, dimensioni e quantità, insieme ai piombi, consentono di ipotizzare la pesca sia con il palangreso50, sia con il tramaglio51; le verghette di piombo con occhielli ai lati sembrano indicare la pratica del traino52.
Chi usa sistemi di pesca impegnativi come il palangreso e il tramaglio non pesca da solo, ma insieme ad altri pescatori muniti di barca; non pesca da terra e non pesca occasionalmente. Il suo obiettivo è catturare determinati pesci, in quantità e dimensioni notevoli, pesci che transitano in branco. Possiede una barca di buona stazza ed è un professionista, conosce cioè il mare e la navigazione, la meteorologia, gli astri, le coste, i fondali, la fauna marina, le tecniche di pesca, di fabbricazione e manutenzione degli attrezzi e delle imbarcazioni. È esperto di esche e di sistemi per la lavorazione e conservazione del pesce; dedica molto tempo ad allestire i suoi strumenti di lavoro che richiedono una continua manutenzione, nonché a procacciarsi e preparare le esche.
Il fango di Punta Chiarito ha preservato dal tempo una quantità considerevole di arnesi da pesca, ma certo solo una parte dell’attrezzatura, perché è logico pensare che ve ne fosse altra sulle barche, in riva al mare o attiva in acqua. Naturalmente non si sono conservati i materiali deperibili, come le reti di vario genere, le retine, le lenze, le canne, corde, nasse, etc., né quella eventualmente attiva in mare al momento della catastrofe. Non si può escludere che gli occupanti la capanna di Punta Chiarito praticassero anche altri sistemi di pesca documentati nell’antichità greca53, compresi quelli subacquei e la pesca notturna con le torce resinate54. Il tratto di mare aperto a Sud dell’isola, tra Punta Imperatore e Punta S. Pancrazio raggiunge profondità superiori ai 500 m. a poca distanza dalla costa; ami lunghi 8-9 cm. fanno pensare a prede di notevoli dimensioni che certamente non mancavano, né mancano oggi55.
Legenda
45 Buchner Niola 1965, pp. 68-69 riferisce di tredici le torri di avvistamento erette a Ischia per difendere il territorio dalle scorrerie dei Saraceni, una di queste sul Monte S. Angelo.
46 Rost 1968, pp. 50-53; Pomey 1997, p. 56.
47 Oggi sia il versante orientale, sia quello occidentale del Chiarito, appaiono come due pareti perpendicolari sul mare in conseguenza del franamento dei pendii. Le carte nautiche e quelle autografe dei pescatori sono piene di avvertimenti.
48 Buchner Niola 1965, p. 68 («La rada di Forio, uno dei migliori approdi dell’isola prima dell’apertura del porto d’Ischia») e p. 20 («In estate Punta Imperatore è interessata dallo scirocco, in inverno dalla tramontana»). Sul “girare al largo” e sulle conoscenze dei naviganti antichi nel prevedere le tempeste vd. Medas 2004, pp. 63, 80.
49 Donati - Pasini 1997, p. 25.
50 Palangreso (a Ischia coffe): Mazzacane 1989, p. 57 ss. (A. Baldi), citato anche nelle didascalie del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Vd. anche: Gialanella 1996a, p. 152.
51 Per l’uso del tramaglio, vd. n. 50.
52 Per l’uso del traino, vd. Gialanella 1994b, p. 193.
53 Gli altri sistemi di pesca documentati nell’antichità sono la lenza, la fiocina, il tridente, la nassa, il rezzaglio o sparviero, la bilancia e varie reti di postazione, vd. Kuhn 1998, coll. 527-9; Donati, Pasini, 1997, pp. 11-22. Un mosaico di Tunisi (Museo del Bardo) raffigura la mattanza dei tonni a randellate, un mosaico pavimentale della Basilica di Aquileia, le reti a strascico, la pittura vascolare della kylix del Pittore di Ambrosios (480 a.C., Boston, Museum of Fine Arts), un pescatore munito di lenza e nasse. Fondamentale è Buchholz 1973, p. 169 ss.
54 Per la pesca subacquea cf. Hom. Il. 16.745-748; 18.414; Od. 19.113. Un pescatore subacqueo, oltre che consumatore di frutti di mare, era, con tutta probabilità, l’atleta di Taranto, come hanno rivelato le analisi degli elementi paleonutrizionali e delle patologie (esostosi del condotto uditivo esterno) rilevate sullo scheletro. Vd. Gaspare 2004, pp. 72 e 74. Tucidide (4.26) documenta le notevoli abilità dei greci nel nuoto subacqueo. Per la pesca notturna cf. Plat. Soph. 220 d.
55 Il pitecusano “Cratere del Naufragio” (Museo Archeologico di Pithecusae in Lacco Ameno, inv. 168813) che non sembra riferirsi a modelli letterari, raffigura grandi pesci, uno dei quali addenta la testa di un naufrago. La rappresentazione è simbolica, ma fa pensare a uno squalo e, di fatto, un amuleto proveniente dalla necropoli di San Montano era stato fabbricato con un dente di squalo (Gialanella 2001, p. 32, Buchner - Ridgway 1993, T 488,9 p. 492, Tav. 165, 9). Per le fonti letterarie sui tonni a Cuma, vd. Steier 1936, col. 730. Persino oggi nelle acque di Ischia non mancano sorprese: il 31.03.04 è stato pescato un pesce pavone (volpe di mare), uno squaloide commestibile di oltre 300 chili. Ringrazio i trasportatori della Cooperativa S. Michele e i pescatori di S. Angelo per molte utili indicazioni.
15. Secondo dato certo: i tonni
Le acque intorno all’isola vengono indicate dagli esperti come ricche di tonni56 dal periodo in cui depongono le uova, da fine maggio, alla metà di ottobre. Proprio il palangreso (che sostiene anche migliaia di ami) viene tuttora usato al largo di Ischia per la pesca del tonno, del dentice, degli sgombri e di altri palamiti.
Fino al 1852 a Ischia (S. Pietro) e fino al 1960 a Lacco Ameno esistevano vere e proprie tonnare; nella metà del ‘700 fu progettata una tonnara, poi non realizzata per questioni d’interesse, anche ai Maronti, a Sud dell’isola. Anche la baia di Citara a Forio ospitava da tempi antichissimi una tonnara e deve il suo nome non alla Citerea Afrodite, come tanti raccontano, ma a grandi pesci, tonni e simili (ketea)57.
A proposito del tonno scrive nel 1837 Chevalley de Rivaz, il medico svizzero attento osservatore della natura e dei costumi dell’isola, «.. il pescatore, armato di lancia, gli dà la morte. Il pesce spada che passa spesso in piccoli branchi negli stessi paraggi, viene preso allo stesso modo»58.
Osserviamo le ”armi”. La lancia può essere un’arma sia d’offesa, sia di difesa, anche nei confronti di altri animali59, ma la cuspide di lancia (C 163) di Punta Chiarito, ben diversa da quella delle lance dei dorifori, simile a un arpione, sembrerebbe proprio adatta all’uso descritto dal de Rivaz; l’uncino di ferro della vetrina 1 (B 33) potrebbe essere di grande utilità per agganciare dalla barca un grosso pesce, dopo che è stato ferrato, nonché a stanare le murene. Il coltello (C 166), prima che un’arma, è uno strumento da lavoro, in particolare per il pescatore che prepara le esche. L’ascia a doppio taglio veniva utilizzata per lavorare il tufo, l’accetta per procurare la legna da costruzione e da ardere; come il falcetto, non sono veri e propri attrezzi agricoli, ma strumenti utili allo sfruttamento delle risorse boschive e della macchia, dai quali si ricavava la materia prima per barche, nasse e reti con relativi galleggianti (sugheri) e per le torce resinate per la pesca notturna. I grossi ganci di ferro (C171 e 172, vetrina 7) sembrano fatti apposta per appendere due bei grappoli di pesci, come quelli che sorregge il pescatore dell’antichissima pittura murale di Thera60.
I pesi in argilla non cotta, come quelli litici, non venivano usati per la fabbricazione o la manutenzione delle reti, ma applicati alle stesse per farle affondare in acqua. Le reti non venivano fabbricate su telaio, ma manovrando un ago, forse in legno, d’osso o metallico con le estremità a forcina, come quelli in uso ancor oggi61, eventualmente servendosi di un bastone come appoggio o per raccogliere la fila di maglie.
Eccoci al punto: chi nel VI sec. a. C. possedeva un’attrezzatura da pesca così ricca, completa e costosa, s’insediò in un luogo come Punta Chiarito non per coltivare la terra che non c’era, né per aggredire le navi di passaggio, ma per pescare. Aveva occupato, ristrutturato e riattivato un rudere preesistente non in qualità di agricoltore, né per depredare i naviganti; faceva il pescatore, non con lo scopo di nutrire se stesso, la propria famiglia o i ribaldi compagni di mestiere, ma per vendere ovvero barattare il ricavato del proprio lavoro62.
All’attacco del promontorio del Chiarito aveva trovato una base ideale, riparata dai venti e da eventuali aggressori provenienti dal mare, ma vicina ad un’altura dalla quale si poteva osservare l’arrivo delle scole di tonni.
16. Terzo dato certo: le esche
Chi pesca con il palangreso, non raccoglie le patelle; le stacca laboriosamente dallo scoglio con una lama e sa che, saporite quanto dure e indigeste, costituiscono l’esca ideale per quel sistema di pesca. Il fatto che siano state trovate tante patelle sul focolare e nelle lenti di terra vicino alla banchina non significa che siano state usate per la zuppa, ma che vi sono state gettate con altri rifiuti, p. es. scarti della preparazione di esche (sardine, gamberi, oloturie, etc., di cui non può restare traccia) e della lavorazione del pesce.
17. I tubicini di corno
Anche per altri reperti non si può escludere la possibilità di riferirli al contesto proprio del laboratorio di un pescatore. Particolarmente interessanti sono i tubicini di corno (C 192) rinvenuti nella zona vicino alla pietra circolare di tufo in lavorazione. Nel libro XII dell’Odissea, vv. 251-253, un pescatore getta in mare, ovviamente attaccato alla lenza e all’amo, «del corno di bovino selvatico», un tubicino di corno applicato all’amo per impedire ai pesci più mordaci di staccare l’amo dalla lenza63. In effetti i tubicini di corno (C 192, vetrina 7) esposti nel Museo Arch. di Napoli sono troppo voluminosi per fungere da rivestimento per l’arco di una fibula e non si capisce come si possa ipotizzarne la funzione di «apici di pugnale».
Legenda
56 Pirino 1982, pp. 341-342 (distribuzione della tonnina, del bonito e del tonno nel nostro mare).
57 Silvestri 2003, pp. 53 e 119; Di Meglio 2002, pp. 16 e 37; Di Meglio 2004, p. 76. Su Citara: P. Buchner 1968, pp. 127-128.
58 Chevalley de Rivaz 1837 (cit. in Silvestri 2003, p. 71).
59 Donati - Pasini 97, p. 93. Va notato che nella necropoli di Pithecusae sono totalmente assenti le armi. Sulla difficoltà di distinguere gli arpioni da strumenti agricoli, sacrificali o armi, vd. Buchholz 1973, p. 167.
60 Affresco di Thera: vd. Donati - Pasini 1997, p. 145, tav. 89.
61 Per la tessitura delle reti vd. n. 40.
62 Vd. De Caro 1998, p. 413.
18. I grumi di rame
Per quanto riguarda i grumi di puro rame, se li consideriamo una forma di pagamento premonetale, dobbiamo chiederci in pagamento di cosa, ma anche che uso può averne fatto il suo proprietario, oltre a quello di servirsene a sua volta per barattarli con altri beni, p. es. prodotti agricoli, ceramiche o strumenti di lavoro.
Potrebbe averli usati per la fusione del bronzo, p. es. per fabbricare gli ami, ma non si può escludere che il rame sia stato impiegato in lega con lo zolfo o i solfati (allume) presenti in zona, per ricavarne un intruglio venefico usato sia dai pescatori subacquei, sia da chi pesca con la lenza e la fiocina, per stanare pesci, polpi e murene dalla tana. L’uso o abuso di sostanze velenose, in particolare il vegetale cyclamen e lo hederafolium neapolitanum da parte di pescatori nell’antichità è attestato da numerose fonti, come è attestato l’impiego del solfato di rame in agricoltura64.
Il crogiolo trovato sulla piastra identificata come focolare (C193, vetrina 7) fa pensare che a chi operava nella capanna non fossero estranee abilità metallurgiche o alchimistiche.
19. Le fosse di coltivazione
Per quanto riguarda le fosse identificate come fosse di coltivazione della vite (in tutto 3, di diversa profondità) e per il sostegno dei tutori, sarebbe opportuno conoscerne le dimensioni e confrontarle con altri dati relativi ai sistemi di coltivazione della vite in ambito greco arcaico. Altrettanto opportuno sarebbe sapere se l’unico seme di vinacciolo trovato nel sito proviene da un campione di terreno della fossa A o B. In base ai dati finora resi noti, le fosse potrebbero aver sorretto un sistema di pali per altro uso, p. es. per la lavorazione delle reti o per essiccare al sole il pesce, ma anche polpi e piovre, come si usa ancora oggi in Grecia con risultati molto migliori, dal punto di vista gastronomico, di quelli degli altri sistemi di conservazione.
20. Conservazione del pesce
Nel VI sec., in epoca premonetale, ogni oggetto di un qualche valore e scambiabile con altri beni, comprese le derrate alimentari e le ceramiche conservate nel magazzino, può essere considerato mezzo di pagamento per la fornitura di pesce fresco o conservato. Il pesce essiccato e salato o marinato costituiva il principale apporto proteico nella dieta dei marinai e degli eserciti65. Dalle interiora di pesce (in particolare tonno e sgombro) sottoposte a processi di disidratazione e fermentazione, marinate con sale e spezie e dalla salatura degli sgombri, pesce abbondante e molto deperibile, si ricavavano gustose salse di cui conosciamo le ricette dai Romani (allex, garum, maena ed altre) che servivano per insaporire diverse vivande e da companatico66. I pescatori del Chiarito avevano la possibilità di procurarsi il sale in loco, come facevano gli abitanti di Panza fino a tempi recenti.
Legenda
63 Vd. Lafaye (s.d.), p. 489 nn. 27 e 28. Il corno è menzionato anche in Hom. Il. 24.80-1. Per le altre interpretazioni (peso per affondare l’esca oppure frammento vuoto per far galleggiare la lenza, etc.) Buchholz 1973, p. 169 n. 625. Tra le numerose fibule ad arco rivestito provenienti dalla necropoli, un piccolo (cm. 2,9) segmento cilindrico ha l’aspetto di un tubicino e viene interpretato, insieme a un frammento di dimensioni molto inferiori, come il terminale conico di una fibula non conservata: Buchner - Ridgway 1993, T 134,2 p. 163, Tav. 41. Tra i materiali usati per il rivestimento delle fibule, sia di bronzo, sia di ferro, provenienti dalla necropoli, si trovano frequentemente terminali conici d’osso, d’avorio o ricavati dalla colummella di gasteropodi marini, ma non di corno.
64 Per lo zolfo vd. n. 5. Anche Giustiniani 1797-1805, 5, p. 153 attesta la presenza di zolfo nella zona del Chiarito (miniere di zolfo trovate nel 1465 da Bartolomeo Perdice Genovese); per le
fumarole vd. Buchner Niola 1965, p. 14. Beloch 1890, p. 204, descrive le fumarole sulfuree (Schwefeldämpfe) nella costa meridionale dell’isola. La pesca con veleni è attestata da Oppiano (H. 4.647-693), Aristotele (HA. 602 b 31), Filostrato (Imag. 1.13.8), Teofrasto (Hist.Plant. 9.10), Plinio (Hist.Nat. 25.98), Platone (Leg. 7.823). Per l’impiego del solfato di rame in agricoltura, v. Blümner 1921, coll. 796 ss.; Lafaye (s.d.), p. 491 n. 7.
65 Il pesce salato faceva parte della dieta dei marinai e degli eserciti. Cf. Aristoph. Ach. 1100-1101. Vd. inoltre Steier 1936, col. 731; Rost 1968, pp. 50-53.
66 Sul garum cf. Plin. Hist.Nat. 31.94-95 e, naturalmente, il liquamen di Apicio, onnipresente nel suo ricettario. Vd. inoltre Zahn 1910; Gutsfeld 1998, col. 529.
21. Quantità e tipologia del vasellame da mensa
Esaminiamo i reperti di fabbricazione locale e d’uso domestico: non sono troppe le pentole da fuoco, le brocche e brocchette, i boccali e le coppe per bere, le scodelle e gli scodelloni per le esigenze di un piccolo nucleo familiare o di un manipolo di pirati? La quantità e la tipologia del vasellame da mensa fa pensare piuttosto ad un’attività di ristorazione, per esempio per le navi di passaggio e in sosta per “l’acquata”, come si chiama in gergo il rifornimento di acqua potabile.
22. L’acqua potabile
Proprio a Sud dell’isola l’acqua potabile non manca. Oggi si può attingere all’Olmitello67, a circa 60 m. dalla spiaggia dei Maronti, meno di un miglio dal Chiarito, leggermente salina e tiepida, ma ottima e salutare. Certo non si può affermare che la sorgente dell’Olmitello esistesse nel VI sec. a. C.; lo studio analitico delle acque fredde potabili di M. Caccioppoli del 1944 non la menziona, perché termale, ma dice chiaramente68 che proprio vicino alle Fumerie, «a Succhivo nella Cava dell’Acqua a 60 m. sul mare sgorga una sorgente perenne di acqua fresca potabile. Nel mese di agosto la sua portata era di litri 2,75 al m’. Questa acqua potrebbe essere condotta a S. Angelo risolvendo il problema di quella piccola località turistica». Inoltre: «A Panza nella Cava Sia (a m. 155 sul mare) esiste una polla di acqua fresca ottima da bere, la cui portata estiva pare che superi i litri 4 al m. Attualmente è seminterrata da una frana». Nella zona che ci interessa, dove si sono spostate masse di detriti di molti metri di altezza, può esser benissimo accaduto che sia rimasta interrata la sorgente della Cava dell’Acqua (significativo toponimo), come quella della Cava Sia e come è avvenuto per soffioni sulfurei, i “bagni di Saliceto” alle spalle dell’angiporto di Panza, oggi Baia di Sorgeto, o “le acque bollenti con fragore” di Cava Grado raffigurate nelle antiche carte d’Ischia69. È molto importante sottolineare, come fa il tecnico Caccioppoli, che nell’isola d’Ischia esistono sorgenti d’acqua fredda potabile (poche) e sorgenti di acque termali potabili (abbondanti). Non sempre le acque termali sono inutilizzabili a causa della loro composizione e temperatura in sostituzione dell’acqua potabile: nel territorio di Forio è attestato l’uso da parte dei contadini, prima della costruzione dell’acquedotto sottomarino (1958), di far raffreddare in vasche le acque termali per uso agricolo70; persino a Casamicciola oggi si usa l’acqua termale, dopo averla raffreddata, per innaffiare le piante. L’acqua termominerale di Nitrodi è potabile, come quella dell’Olmitello e più che abbondante. La portata delle sorgenti menzionate dal Caccioppoli può sembrare modesta, insufficiente per l’utilizzo agricolo, ma nel VI sec. a. C. nel territorio di Panza, Succhivo e Testaccio poteva essere una ragione d’insediamento e un’interessante risorsa per l’agricoltura; nella zona del Chiarito per il rifornimento delle navi. Dobbiamo inoltre considerare che gli abitanti della capanna di Punta Chiarito per trasportare dal Monte di Vico, certamente non via terra, ma via mare, un blocco di tufo di 300-350 kg, nonché giare di più di un metro di altezza, dovevano avere non solo valide motivazioni, ma anche adeguati mezzi di trasporto a integrazione di quello marittimo, asini e muli, forse un carretto trainato da muli71 e quindi anche la possibilità di attingere acqua potabile ad una certa distanza. L’Isola d’Ischia ha un perimetro costiero di sole 18 miglia comprese le insenature, percorribili in condizioni climatiche ed eoliche normali due volte in un giorno con una barca a remi72 e in tempi molto più brevi con la vela, almeno per i tratti con venti favorevoli.
I Pitecusani di Punta Chiarito potrebbero non solo aver attinto acqua potabile da sorgenti non vicinissime, ma anche aver avuto un’altra residenza in una zona produttiva dal punto di vista agricolo ed essersi stabiliti sul Chiarito di proposito solo per la stagione della pesca e della navigazione.
Per concludere: le sorgenti a Sud dell’isola sono pochissimo termalizzate73 per l’assenza di fumarole nei loro bacini, e potabili. Se anche non è possibile stabilire con certezza dove si trovassero fonti potabili nella prima metà del VI sec., è verosimilmente ipotizzabile che nella zona di Panza-Succhivo-Testaccio esistessero anche in epoca così remota e che i naviganti che sostavano nella Baia di Cava Grado potessero usufruirne, sia per fare l’acquata, sia per l’igiene personale, giovandosi di acque termali74. È allora pensabile che i Pitecusani esperti di pesca si siano insediati sul Chiarito per la stagione della navigazione e della pesca occupando strutture abbandonate e abbiano trasportato derrate alimentari e vasellame da mensa in quantità certamente superiore alle loro esigenze personali per utilizzarli in un esercizio commerciale. Va osservato che se il territorio alle spalle del Chiarito era, come sembra e come è avvenuto nei secoli, sfruttato con insediamenti agricoli75, chi occupava la capanna, per insediarsi una dispensa così fornita, vasellame in quantità, un blocco di tufo di oltre 300 kg., anforoni di più di 1 m. di altezza, etc. proprio a poca distanza dal mare, anziché in un luogo più sicuro e più vicino al pianoro coltivabile, doveva avere una motivazione non limitata esclusivamente alla pesca, ma anche allo stoccaggio del pesce conservato e alla commercializzazione delle provviste.
Legenda
67 Sollino 2002, p. 80.
68 Caccioppoli 1971, p. 32 e 33. La sorgente Olmitello era nota a Beloch 1890, p. 209. Per quanto riguarda le sette sorgenti a Sud dell’isola che sono indicate nella carta orografica di L. Vezzoli
(1988, cit. in De Caro 1994 p. 39 fig. 1), compresa quella di Cava dell’Acqua, vicinissima al sito archeologico del Chiarito, il loro attuale aspetto non può essere indicativo della loro portata e profondità nel VI sec. a. C., perché situate in un territorio soggetto a continue trasformazioni geofisiche rilevanti come terremoti, eruzioni, nubifragi, bradisismo. Fondamentale è il dato di fatto che l’isola d’Ischia è ed è sempre stata dotata di sorgenti potabili, in particolare a Sud del monte Epomeo.
69 Nelle antiche carte d’Ischia del ‘500 e ‘600 il promontorio del Chiarito lo sperone occidentale, dalla parte di Sorgeto, viene raffigurato molto più accentuato di quello odierno. L’insenatura tra il Capo di Pedora e Falconara con alle spalle i “bagni di Saliceto” è denominata “Angiporto di Panza” nella carta di Mario Cartaro (1586) ed altre per le quali vd. Buchner Niola 1984, Tav. I, II, III, IV, VII, VIII, IX.
70 Buchner Niola 1965, p. 23.
23. Provenienza e destinazione degli “oggetti di lusso”
Veniamo ora agli oggetti ”di lusso” che sorprendono nella capanna di un pescatore/operaio. Notiamo che le ceramiche d’importazione ”da banchetto aristocratico”, ad eccezione del cratere laconico, nonché gli unguentari, balsamari e piccoli recipienti (cothon, lekythoi, stamnos e pisside) hanno un denominatore comune: sono di provenienza ionica. Per la borraccia, le lucerne, il bacile e le grattugie di bronzo non è definita l’origine; forse è magnogreca. Nel complesso il “set da banchetto” potrebbe essere la traccia del passaggio di forestieri, ovviamente navigatori di provenienza ionica, finalizzato non tanto alla consumazione di “banchetti aristocratici”, quanto di banchetti e libagioni ospitali e rituali che erano la prassi sia all’approdo, sia prima della partenza delle navi, come racconta più volte Omero76 e testimonia Tucidide77. Il “set da banchetto” non va attribuito a consuetudini domestiche degli occupanti la capanna, ma ai loro ospiti ed acquirenti, ai capitani delle navi di passaggio, che potrebbero averle lasciate in cambio del pesce e dell’accoglienza. Va notato che alcuni oggetti sono in coppia: due coppe ioniche, due lekanai, due coppe di bucchero grigio orientale, due lucerne, come se a libare fossero in due. Due come gli ecisti, i capi che guidavano le migrazioni? Oppure due come l’ospitante che riforniva la mensa e l’ospite che ringraziava gli dei per il felice approdo, invocandoli per il proseguimento della navigazione e dell’impresa? Il bacino di bronzo ben si accorda con gli indispensabili lavacri che precedono la libagione, anzi ricordano i lavacri del navigante nell’Odissea78 ai quali seguono la cura della pelle con unguenti e profumi. Si può pensare che il pescatore/scalpellino progettasse di costruire il louterion per lavacri non limitati al lavaggio lustrale delle mani o dei piedi.
Non ci stupiscono affatto i contenitori di unguenti che venivano usati dagli uomini non meno che dalle donne: «Mi laverò la salsedine dalle spalle e con l’olio m’ungerò tutto: da molto l’olio è lontano dal corpo», dice Odisseo alle ancelle di Nausicaa79. Ciò era determinato non tanto dalla sua condizione di naufrago e di aristocratico abituato a cure raffinate, ma dal viaggio per mare. La quantità ridotta di acqua dolce disponibile sulle imbarcazioni, limitata all’indispensabile provvista di acqua potabile, non consentiva alcuna forma d’igiene durante la navigazione per detergere il sudore o la salsedine80. Per quanto riguarda i bisogni corporei, l’igiene non poteva essere che quella raffigurata su un vaso cipriota del VII secolo a.C. che si trova nel British Museum di Londra: un marinaio, in equilibrio sul timone, sporge in mare da una nave mercantile il fondoschiena per «far mangiare i pesci»81, una necessità uguale per tutti, navarchi come mozzi. Durante la navigazione non c’erano né mezzi né tempo per un pasto caldo. Per motivi di sicurezza (pericolo di incendi) si evitava di accendere fuochi a bordo82 e soltanto la sosta notturna a terra consentiva di rifocillare gli equipaggi con vivande cucinate83.
Non è difficile immaginare quanto sia stato appetito e gradito dai naviganti fare scalo in un luogo dove avevano la possibilità, ringraziando gli dei, di lavarsi, rifocillarsi con una buona cena e finalmente riposare, sia pure coricandosi e dormendo sulla spiaggia sotto le stelle oppure su una coltre di foglie al riparo di fronde, come descrive Omero nell’Odissea84.
Legenda
71 Si possono immaginare simili a quelli della stipe di Pastola (fine sec. VII a. C., Museo Archeologico di Pithecusae, inv. 238613, 281920-23). Sull’argomento vd. Gialanella 1994b, p. 177. Ischia, in particolare a Sud, doveva essere come l’Itaca di Omero (Od. 4.605-609), un territorio molto limitatamente carreggiabile. Gli animali ed il carro però potevano essere facilmente trasportati da una località all’altra con la barca.
72 Silvestri 2003, p. 169 s.: Anellino, un pescatore di castaurielli (lucertole di mare), racconta di aver girato con il gozzo a remi (senza vela) intorno all’isola ben due volte in un giorno.
73 Buchner Niola 1965, p. 14.
74 Le acque termali erano apprezzate dai Greci nell’antichità; nelle loro vicinanze spesso si trovavano dei santuari (Epidauro, Atene, Trezene, Cos e Pergamo) in cui le acque «oltre a servire alle esigenze del culto, venivano utilizzate anche per l’idroterapia». Già Erodoto (7.176) racconta di sorgenti termali sacre a Eracle alle Termopili. Vd. Marasco 1978, p. 154 s. Il geografo Strabone (5.4.9) era a conoscenza delle acque termali di Ischia.
75 De Caro 1994, p. 39 s.
76 P. es. Telemaco alla partenza.Vd. Hom. Od. 2.431-33; 15.147- 149 (Menelao con Telemaco, «perché partissero avendo libato»); 15.257-259 (Telemaco liba e prega all’arrivo presso la capanna di Eumeo).
77 Thuc. 6.3.1 (prima di salpare); 6.32 («versato vino nei crateri per tutta la flotta [gli Ateniesi] con coppe d’oro e d’argento, soldati e ufficiali facevano libagioni»).
78 Hom. Od. 1.136; 3.464-468; 5.264; 6.209 e 214; 7.172-175; 8.450-455 (bagno caldo), 10.182 (mani); 10.360-370 (bagno); 10.450.
79 Hom. Od. 6. 218-220; vd. 10.450 («unse di olio abbondante», trad. Calzecchi Onesti 1963).
80 Rost 1968, p. 51.
81 Pomey 1997, p. 77.
82 Hoeckmann 1985, p. 90 ss.
83 Rost 1968, p. 53.
84 P. es. Hom. Od. 4.426 (spiaggia) e 5.475 ss. (giaciglio di foglie sotto un cespuglio di oleastro).
24. I Focesi
Le analogie tra le ceramiche d’importazione custodite nella capanna di Punta Chiarito e il carico di una nave naufragata nel VI sec. a. C. presso l’isola del Giglio, che trasportava vino, resina ed olive in anfore greche ed etrusche, metalli e materiali ferrosi, ma anche coppe ioniche, unguentari (corinzi, laconici, 1 etrusco) e «un servizio potorio con cratere e ceramica d’uso orientale», nonché la concordanza cronologica, sono sorprendenti. Tali carichi misti sono stati attribuiti specificatamente ai Focesi85, greci di stirpe ionica, provenienti dalle coste dell’Asia Minore, che proprio alla fine del VII sec. e nel VI a. C. furono significativi protagonisti di una grande ondata migratoria verso l’Occidente, nonché di eclatanti conflitti con le maggiori potenze marinare non greche86. Tra i Focesi e i Greci di origine calcidese, come i Pitecusani, vi furono stretti legami. I Focesi fondarono numerose colonie sulla costa del Mediterraneo nord-occidentale (Provenza, Penisola Iberica), Alalia (Aleria) in Corsica, Elea (Hyele, Velia) sotto il massiccio del Cilento. La rotta a Sud dell’Isola d’Ischia per navigatori diretti verso le Isole Pontine, la Corsica, l’Alto Tirreno ed il Mediterraneo Occidentale è più che verosimile. In riferimento ai grumi di rame del Chiarito, va notato che i Focesi esportavano tale metallo dalle colonie iberiche.
Verso la metà del secolo VI i naviganti che frequentavano il promontorio del Chiarito si trovarono di fronte ad una terrificante sorpresa. La fondazione di Dicearchia (Pozzuoli)87 nel 531 a.C. da parte di esuli da Samo, con l’appoggio di Cuma, potrebbe essere interpretata come dettata, tra l’altro, dalla necessità di creare uno scalo in sostituzione di quello sepolto a Sud di Ischia da una coltre di fango.
25. In attesa dell’esito dei recenti scavi
Quando verrà reso noto l’esito degli scavi eseguiti nel 2004, sarà possibile fare una verifica dell’ipotesi di uno scalo navale presso il Chiarito. Se emergeranno altri elementi indicativi dell’esistenza di magazzini per la conservazione di pesce, di provviste e di acqua potabile, dell’utilizzo di ceramica da tavola e da cucina in misura eccedente il fabbisogno di residenti in piccole strutture abitative, si avrà una conferma che la capanna non era una fattoria, domicilio di un piccolo nucleo familiare di coloni, né una postazione di pirati. In ogni caso, difficilmente i nuovi reperti potranno invalidare l’evidenza che l’insediamento del VI secolo era finalizzato ad attività attinenti alla pesca e alla navigazione. E’ auspicabile che l’esito degli scavi fornisca elementi per la ricerca storica sulle ragioni dell’insediamento più antico, quello del secolo VIII, finora alquanto trascurate.
26. Importanza delle risorse ittiche
Il laboratorio e il deposito/dispensa dei pescatori di Punta Chiarito inducono a ulteriori considerazioni. Non soltanto vi è rappresentata in maniera eccezionalmente ricca e compatta un’attività lavorativa in epoca arcaica88, ma ci troviamo di fronte a testimonianze monumentali, oggettive, dell’importanza che la pesca ha avuto per l’economia isolana, in generale e nello specifico, in particolare se connessa all’attività emporica. Il declino di Pithecusae dall’inizio del secolo VII a. C., conseguente prima all’espansione di Cuma, poi alle catastrofi naturali di natura vulcanica, come documentano gli scavi archeologici89 e come asseriscono le fonti storiografiche90, deve farci riconsiderare l’importanza delle risorse ittiche (riconosciuta da Hom. Od. 19.113) e del lavoro dei pescatori in età greca arcaica e in particolare nei periodi di recessione, come peraltro avvenne in secoli successivi. Le industrie (metallurgica, ceramica), i commerci, l’agricoltura (soprattutto la viticoltura), lo sfruttamento di alcune caratteristiche ambientali, hanno improntato l’economia dell’isola con vicende alterne, ma la pesca è rimasta fino a mezzo secolo fa una risorsa primaria costante.
Legenda
85 Vd. Ampolo 1994, pp.30-31.
86 Sui Focesi vd. Bérard 1963, pp. 255-257. Esportazione focese di rame iberico: vd. Barcelò 1999 e Blümner 1922. Su Velia vd. Bérard 1963, p. 257 .
87 Cf. Strab.5.246. Vd. Bérard 1963, pp. 61 e 75. 88La straordinaria importanza dei reperti relativi all’attività dei pescatori è data dal fatto che, diversamente da altri, quantitativamente più rilevanti, come gli ami di Olinto (più di 100), Thasos (40 di misura diversa), di Priene o altri, non sono stati ritrovati in depositi, santuari o tombe (Buchholz 1973, p. 173), ma in un esercizio attivo, come dimostrano le patelle.
89Buchner - Gialanella 1994, pp. 10, 18 e 77; Ridgway 1992, p. 106; De Caro - Gialanella, 1999, pp. 19 e 22.
90Cf. Strab. 5.9; Plin. Hist. Nat. 2. 203; 3.82.
27. L’ombelico storico dell’isola
Nel sito archeologico del Chiarito c’è non solo l’istantanea di un mondo, di un’epoca, di un giorno e di un attimo di ventisei secoli fa a Ischia. Nel tracciato murario dell’arcaica capanna, le ellissi di pietra sul ventre vulcanico di Panza, sono presenti gli elementi che costituiscono l’ombelico storico dell’isola e della sua identità: il mare il vulcano le acque il fango, fonti di vita, ma anche di morte. Vi è rappresentato il nucleo delle attività che caratterizzano o caratterizzarono il lavoro degli isolani: la pesca, la navigazione e l’emigrazione, l’agricoltura, la lavorazione dei metalli e delle ceramiche, i commerci, l’utilizzo delle sorgenti termali e se l’ipotesi dello scalo navale coglie nel segno, l’accoglienza dei forestieri.
Per questo non si può che rimanere stupiti di fronte ai reperti e ammirati di fronte all’opera di recupero e di ricostruzione realizzata dagli archeologi. Stupisce però anche constatare che il sito di fatto è stato per anni abbandonato, nonostante i progetti di risanamento del dissesto idrogeologico del Chiarito e di valorizzazione del patrimonio archeologico, ad un incredibile degrado e alla progressiva distruzione in conseguenza degli agenti atmosferici. Stupisce anche che solo pochissimi ischitani e, fuori dell’isola, solo un numero limitato di addetti ai lavori siano a conoscenza degli scavi e abbiano visto i reperti custoditi a Napoli. Stupisce infine che, mentre nel Museo Archeologico di Pithecusae a Lacco Ameno ai visitatori viene offerta in visione (filmato RAI in videocassetta) una ricostruzione della capanna che somiglia al bungalow di un villaggio turistico, nel Museo del Mare di Ischia Ponte, dove si sente pulsare il cuore della gente di mare, non vi sia la minima traccia, sia pure in copia o in fotografia, d’informazione sulle strepitose scoperte archeologiche che riguardano gli arcaici pescatori di Punta Chiarito.
28. Restituire a Ischia quel che è di Ischia
Forse è arrivato il momento che il tesoro dei Pitecusani del Chiarito, oggi custodito in una sala del Museo Archeologico di Napoli quasi sempre chiusa al pubblico, ritorni nell’isola da cui proviene e a cui appartiene. Quando venne realizzato l’allestimento delle sale 124 e 125 nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Museo Archeologico di Pithecusae non aveva ancora aperto i battenti; oggi, a sei anni dall’inaugurazione, Villa Arbusto appare come la giusta sede in cui esporre i reperti archeologici del Chiarito, assieme a quelli provenienti da altre parti dell’isola. Preceduti da un adeguato progetto di valorizzazione e pubblicizzazione, i ritrovamenti di Punta Chiarito
potrebbero costituire il motore di una straordinaria
promozione del turismo culturale sull’isola.
29. Conclusioni
1. I Pitecusani della capanna del Chiarito erano pescatori; pescavano pesci che viaggiano in branco, anche grandi pesci, come tonni, pescispada, etc., che rivendevano alle navi di passaggio, barattandoli con oggetti (ceramiche, metalli, corno) di corrispondente valore.
2. La capanna era il laboratorio/magazzino di pescatori; Punta Chiarito era uno scalo per il rifornimento delle navi che transitavano sulla rotta a SO dell’isola dirette verso il Medio e Alto Tirreno o il Mediterraneo Occidentale. I naviganti sostavano per rifornirsi di acqua potabile e di vivande, per rifocillarsi, lavarsi e pernottare.
3. I materiali d’importazione sono la traccia del passaggio di naviganti d’origine ionica, verosimilmente focesi; furono oggetto di scambi commerciali. Il servizio potorio con cratere e ceramiche d’uso orientale veniva usato in banchetti e libagioni rituali all’arrivo/partenza delle navi.
4. I reperti relativi alla pesca sono significativi testimoni di un’attività lavorativa sottostimata, ma fondamentale per l’alimentazione della popolazione nelle isole, nelle zone costiere marine, lacustri e fluviali.
5. I ritrovamenti archeologici di Punta Chiarito sono molto significativi per l’archeologia e la storia antica, ma anche molto rappresentativi per l’identità, le origini degli isolani e di quanti hanno un legame con il mare.
6. La giusta collocazione dei reperti di Punta Chiarito non è Napoli, ma Ischia, dove non sono mai stati esposti e dove potrebbero dare un eccezionale impulso al turismo culturale. La sede per l’allestimento delle vetrine con i reperti originali non può essere individuata che in Villa Arbusto in Lacco Ameno, nel Museo Archeologico di Pithecusae. Per la suggestiva ricostruzione della capanna si potrebbero recuperare nel parco gli spazi attualmente degradati a deposito di immondizie.
7. Per la realizzazione del Parco Archeologico del Chiarito sono previsti quattro anni di tempo; per la salvaguardia del sito archeologico e il risanamento ambientale del Chiarito è necessario intervenire subito.
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