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Educazione ambientale: ricominciare... da tre

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L’Educazione ambientale in Italia ha vissuto alterne vicende. C’è stata un’epoca iniziale eroica, in cui l’impegno e la passione sopperivano all’inesperienza, e in cui sono nate importanti riflessioni teoriche riferite al nostro Paese (da “Un mondo Tutto attaccato” di Vittorio Cogliati Dezza ai primi “quaderni di Pracatinat”).

C’è stato poi un periodo di crescita e organizzazione, con lo sviluppo dei Centri per l’Educazione Ambientale (CEA) e con la creazione della rete nazionale INFEA. La 1° Conferenza nazionale dell’Educazione Ambientale tenutasi a Genova nel 2000 e il successivo Accordo di programma in materia INFEA tra Stato, Regioni e Province autonome gettavano le basi per compattare, organizzare e far sviluppare ulteriormente il variegato mondo dell’Educazione ambientale, mentre contemporaneamente le esperienze già mature generavano riflessioni che permettevano di uscire dall’improvvisazione e di dare qualità e professionalità al lavoro degli educatori. Purtroppo tale fase durò poco: la rete Infea fu frammentata in reti regionali, e solo poche regioni continuarono a svilupparla e a proporre nuove attività e nuovi approfondimenti teorici. Seguì una fase di smantellamento (ripetuti tagli alla Scuola e al mondo associativo, spinta alla “modernizzazione” che faceva preferire l’informatica e l’inglese come integrazione dell’offerta formativa).

Nel primo decennio del nuovo secolo, infine, abbiamo vissuto per alcuni anni una fase “emergenziale” nella quale l’esplosione diffusa (non più puntuale come avvenne a Seveso) di alcune delle contraddizioni più gravi del rapporto uomo-ambiente ha portato a un rifiorire di progetti nati dall’ansia di “fare subito qualcosa”, progetti che però spesso si sono concretizzati soltanto in “istruzioni per l’uso” sulla raccolta differenziata e il risparmio energetico;

E siamo a oggi: il peso della crisi si fa sentire e non solo la Scuola, ma l’intero mondo dell’educazione e della formazione è stato per anni sacrificato sull’altare del rapporto deficit/PIL, mentre la depressione serpeggiante nella società civile spegneva l’entusiasmo sia degli educatori sia dei potenziali allievi. Come risultato abbiamo un mondo educativo asfittico.

E’ difficile, in un momento come questo, convincere la gente che il rispetto dell’ambiente ha un’utilità sociale. La vertenza dell’Ilva di Taranto -tanto per fare un solo esempio- ci ha mostrato operai disposti a difendere fino alla morte i posti di lavoro pur sapendo che a causa di quel lavoro molte persone stanno morendo di cancro e che la stessa sorte toccherà prima o poi anche a loro o alle loro famiglie, perché sentono di non avere alternativa: chi perde il lavoro in un momento come questo pensa, a torto o a ragione, che non ne troverà mai un altro. La dissennata gestione della crisi ci ha resi ciechi, egoisti ed autolesionisti, l’un contro l’altro armati.

Scoppiano intanto bubboni di cui da tempo gli ambientalisti denunciavano l’esistenza, come il dissesto idrogeologico e l’inquinamento da rifiuti tossici (terra dei fuochi, ma non solo). La politica risponde a tutto questo con lentezza e impaccio, parlare sul serio di ambiente, fuori dalla retorica delle frasi fatte e dei luoghi comuni, diventa molto complicato.

Non dispongo di statistiche, ma la sensazione generale è che la domanda di progetti di EA da parte delle Scuole e delle altre agenzie educative sia complessivamente calata, in sincrono con il progredire della crisi e il calare della sensibilità ambientale. Contemporaneamente sembra ristagnare anche il dibattito tra le varie anime dell’Educazione ambientale, che negli anni Ottanta e Novanta aveva arricchito e fatto maturare non solo il mondo dell’EA, ma il pensiero educativo tout court. Ci ritroviamo con un mondo educativo ambientale disgregato, che arranca improvvisando senza sapere come andare avanti.

Eppure c’è tanto da fare. La crisi stessa costituisce una formidabile opportunità per insegnare (e imparare!) a vivere diversamente, per stimolare la ricerca di nuove soluzioni, per smettere di riempire di slogan le teste degli alunni e cominciare a insegnargli a pensare autonomamente.

Non è necessario ripartire da zero. Ci sono dei punti fermi, conquistati nel corso di almeno trent’anni di storia, che possono costituire la base per un rilancio dell’EA. Occorre semplificare, questo sì, per non disperdere le energie in mille dubbi. I punti fondamentali da cui secondo me bisogna ripartire sono:

ü      L’azione concreta. I ragazzi non sono, come spesso sento dire, “i cittadini del futuro”: sono cittadini già oggi, e ognuno di loro ha un impatto ambientale, e ognuno di loro, che abbia cinque, dieci, quindici o vent’anni, può fare la sua parte per migliorare il rapporto della propria comunità con l’ambiente. Questo vale anche per gli educatori, naturalmente, perciò il nostro esempio è la sola cosa che veramente possa insegnare qualcosa ai ragazzi. Devono vederci tirare su immondizia da una spiaggia e farlo con noi, devono vedere il pezzo di sapone che abbiamo fatto in casa riciclando l’olio delle patatine fritte e rifarlo a casa con la mamma, devono leggere la petizione per l’acqua pubblica che abbiamo firmato, devono venire a fotografarci (o ad affiancarci, col permesso dei genitori) durante il sit-in contro una discarica in area protetta, devono capire che rimboccarsi le maniche e provare a cambiare il mondo non è poi così difficile. Non serve a niente imparare qualcosa sull’ambiente, se non mi permette di cambiare la qualità della mia vita, qui e ora.

ü      Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”: guai a offrire soluzioni su un piatto d’argento. Aiutiamo invece i ragazzi a cercarsele e a sperimentarle. Se li indottriniamo sul come e perché si fa la raccolta differenziata, impareranno forse a mettere la lattina della coca nel bidone giusto, ma nessuno ci garantisce che, posti di fronte a un’altra scelta riguardante l’ambiente, sappiano fare quella più ecologica. Probabilmente neanche si porranno il problema, perché non gli abbiamo insegnato a porselo. Per fare una scelta cosciente devono saperla analizzare e comprenderne le conseguenze, devono avere il coraggio di cercare soluzioni, devono mettersi alla prova sperimentandole in prima persona. Devono prendere coscienza della complessità del mondo, delle mille relazioni che legano ognuno di noi a ogni pur piccolissimo elemento dell’ecosistema, devono saper cercare il proprio posto e il proprio ruolo all’interno della rete della vita.

ü      Il sapere non si inculca ma si comunica. Perciò dobbiamo essere aperti, giocosi e disponibili a partire dalle piccole cose, come la postura, il linguaggio o la disposizione dei banchi (quante volte ho suscitato le ire dei bidelli disponendo i banchi in cerchio o in semicerchio... ma i risultati mi hanno dato ragione!). Il nostro atteggiamento deve essere cooperativo e ludico, e deve incoraggiare i ragazzi alla cooperazione e alla ludicità. La serietà, la cura nella ricerca, l’attenzione nel coltivare le nostre competenze non devono fare di noi dei sapientoni che elargiscono la loro scienza né dei menagrami che minacciano la fine del mondo o quella della nostra specie, anche se sappiamo quanto sia elevato il rischio di un collasso ambientale. Dobbiamo soprattutto ricordarci che l’educazione non significa “mettere dentro” ma “tirare fuori”. Per poter tirare fuori le loro potenzialità e svilupparle, i ragazzi devono sentirsi realmente protagonisti. Perciò ogni volta che possiamo, facciamo scegliere a loro l’argomento da dibattere o l’attività da svolgere, mettiamoli in una condizione di serenità che permetta a tutti loro di esprimersi al meglio, valorizziamo le diversità e le diverse abilità come fonte di arricchimento per tutti. E non dimentichiamo di ringraziarli per ciò che ci hanno insegnato.

Da questi tre punti fermi si potrebbe ripartire per creare nuove occasioni di educazione ambientale fondate sulla qualità delle azioni e delle relazioni e non sulla moda o sull’emergenza. In questo senso la crisi potrebbe essere un’occasione preziosa per ri-costruire un mondo dell’EA più maturo e consapevole, pragmatico ma sostenuto da una forte tensione ideale. Un mondo che sa anche sperimentare soluzioni nuove per supplire alla scarsità di fondi, magari provando ad autofinanziarsi attraverso piccole attività produttive, naturalmente ecocompatibili, o agganciandosi ad aziende della green economy per sviluppare dei progetti insieme. Un mondo che sa dove andare ed è determinato a non farsi fermare, perché è consapevole della centralità dell’azione educativa in ogni tentativo di migliorare la vita delle comunità umane.