Era inizio gennaio, quando feci ingresso nella vita dei coniugi Orsino. Una storia magari simile a tante altre, qui nel Sud Italia, in particolare in Campania, ma qualcosa mi spingeva, in quanto giornalista, ad andare oltre. Al di là delle carte, dei documenti, dei numeri – quanti euro sotto i miei occhi, euro che avevano significato la stessa "morte psicologica" di una famiglia intera! – dei volti e della voce che ascoltavo, lì, attonita. La signora Pina, pochi giorni prima vittima di un'aggressione, avvenuta di sera, con la voce pacata, ma non per questo spenta; il signor Luigi, noto imprenditore della zona vesuviana, apparentemente logorroico.
Quel giorno ho posato metaforicamente la penna, mi sono dimenticata del mio ruolo di cronista, ed ho ascoltato. Ancora oggi, a distanza di sei mesi, sono ritornata nello stesso ruolo, nella stessa veste, non più semplicemente come addetta ai lavori, bensì come donna e cittadina prima e amica della famiglia e giornalista, semmai, dopo. Non si può continuare il percorso della propria esistenza così, come se nulla fosse accaduto. La storia dei coniugi Orsino è nota a tutti: la loro unica colpa? Aver ceduto alle minacce di estorsori ed usurai, sprofondando nel baratro della solitudine, spirituale e materiale, prima della scelta decisiva: denunciare i fatti alle autorità competenti.